Domani, giovedì 27 aprile, alle ore 17.30, presso la Sala Cirillo della Città Metropolitana di Napoli, in piazza Matteotti 1, sarà presentato il libro Il caso Bracco, dello storico Francesco Soverina. Con l’autore saranno presenti Elena Coccia, presidente della commissione cultura del comune di Napoli, il giornalista Ermanno Corsi, la docente dell’Università di Salerno Antonia Lezza. Nel corso dell’incontro Silvana Iovine leggerà alcuni brani del libro.
Gli ultimi anni di vita di Roberto Bracco furono molto tristi. Nel 1929 l’ultima sua opera, I pazzi, fu rappresentata a Roma scatenando l’inaudita violenza di un gruppo di criminali servi del regime; il fascismo, infatti, aveva scientificamente deciso di stendere intorno al drammaturgo napoletano una sorta di cordone sanitario; l’isolamento doveva essere totale, asfissiante, nulla della sua arte e del suo pensiero politico doveva trapelare oltre le mura della sua abitazione; le sue opere furono censurate e dell’autore italiano più rappresentato all’estero, per oltre venti anni, si perse quasi la memoria.
Esiliato in patria, diventò invisibile come uomo, come poeta, come drammaturgo e intellettuale antifascista eletto in Parlamento nelle liste liberali di Giovanni Amendola. Una storia, questa dello scrittore napoletano – di cui ora riannoda i fili lo storico Francesco Soverina con appassionato rigore analitico nel volume Il caso Bracco (edizioni Polidoro), accompagnato da un’intensa postfazione di Aurelia Del Vecchio, nipote del maestro – che non finisce mai di stupire, di indignare, di reclamare giustizia anche a oltre settant’anni dalla sua morte. Ed è proprio questo, crediamo, il senso della ricerca dello storico che, concludendo il suo saggio, sottolinea come sia giunto il momento di un atto riparatore da parte delle nostre istituzioni dell’ingiustizia perpetrata dal regime di Mussolini, che giunse al punto di intervenire (e mai era accaduto prima) sul governo scandinavo per impedire che gli fosse assegnato il premio Nobel. Ma il fatto più grave fu che anche all’indomani della Liberazione continuò l’assordante silenzio intorno al suo teatro, anche da parte di intellettuali democratici che avrebbero dovuto riscoprirne il valore artistico e morale per rinnovare davvero la nostra cultura.
L’opera di Bracco rappresenta una delle espressioni più alte della crisi che investì la piccola e media borghesia europea tra Otto e Novecento. Diversamente dal “dramma a tesi” di Ibsen – a cui spesso viene associato il suo teatro –, i suoi lavori (ripubblicati da qualche anno a cura di Mario Prisco per Editoria&Spettacolo) non hanno nulla delle fredde analisi psicologiche del grande maestro norvegese. Piuttosto le sue opere, che fondono psicologismo e simbolismo, vanno lette come tessere di un grande mosaico in cui arte e vita sono intimamente intrecciate. Questo legame è ben visibile sin dalle sue prime commedie – da L’infedele (1894) a Don Pietro Caruso (1906), da Sperduti nel buio (1901) a La piccola fonte (1905) – che ci interrogano sul senso della nostra esistenza, anticipando, nella scena contemporanea, temi come la psicanalisi, l’antimilitarismo e un femminismo che “oltrepassava il rassicurante perimetro del teatro borghese”. Si parlò, già agli inizi del secolo scorso, di un simbolismo bracchiano che, a partire dal Piccolo santo, suo capolavoro, evocava, attraverso Freud, “il teatro dell’inespresso e del silenzio”, oggetto più tardi del teatro di Jean-Jaques Bernard.
A proposito dell’antimilitarismo, di Bracco va ricordata un’opera fondamentale come L’internazionale, che è del 1915, proprio quando ebbe inizio il conflitto mondiale e la maggior parte degli intellettuali italiani – come, per esempio, D’Annunzio e Marinetti – si dichiararono interventisti invocando la guerra come “igiene del mondo”.
Bracco scelse invece di stare da un’altra parte. Come i grandi visionari del Novecento sentì forte la vicinanza agli ultimi, ai diseredati, a tutti coloro che non erano mai riusciti a stare al passo con la Storia. Così, sarà la fragile cocotte Mignon Floris – ingiustamente creduta una spia perché invia telegrammi di solidarietà ai suoi amanti impegnati a combattere al fronte – a dire parole durissime contro il flagello di una guerra che distrugge vite umane in ogni angolo della terra. L’internazionale anticipa il teatro epico di Brecht ed esprime l’intima sofferenza di Bracco contro ogni forma di sopraffazione e violenza. Questa repulsione si manifesterà pubblicamente anche nel 1919, quando, al termine del conflitto, egli firmerà, insieme ad altri intellettuali europei come Russell, Croce, Zweig, Hesse, Einstein, la Déclaration de l’Indépendance de l’Esprit redatta da Romain Rolland, che invitava il mondo della cultura a ritrovare le ragioni della propria arte e a non cedere più al potere distruttivo dei governi.
Difficile trovare oggi una figura di intellettuale più libera di quella dello scrittore napoletano, che visse il suo tempo in solitudine circondato da trasformisti di ogni genere e anche da scrittori di spessore come Pirandello, che però non esitarono a piegarsi alle direttive di Mussolini. Ma Bracco no. Bracco decise di resistere. Perché credeva che il suo teatro e la sua stessa testimonianza etica avrebbero alla fine vinto sulla barbarie.
Tra i primi scrittori a scoprire la poetica visionaria del drammaturgo napoletano fu una giovanissima Annamaria Ortese, che, nel 1939, gli scrisse parole commosse pregandolo di resistere, perché le sue opere erano capolavori ed egli era un poeta e “un poeta non è mai solo”.
Ma anche oggi c’è qualcuno, soprattutto tra donne, che guarda all’opera di Bracco traendo ispirazione per le sue opere. Ci riferiamo in particolare a Elena Ferrante, che nell’ultimo volume de L’amica geniale, a un certo punto narra che Lenù è alla ricerca in biblioteca di un testo introvabile di Bracco che ha per titolo Nel mondo della donna. Il libro, pubblicato agli inizi del Novecento, ha per sottotitolo “conversazioni femministe”. La scrittrice non lo cita ma si capisce bene dalle pagine di Storia della bambina perduta che sia il personaggio di Nino – somigliante in modo impressionante al vanaglorioso Stefano Baldi de La piccola fonte –, sia il femminismo che attraversa la sua opera sono chiaramente debitrici della drammaturgia bracchiana. Insomma, una ragione di più per riscoprire il grande commediografo napoletano tributandogli, come auspica Soverina, una sorta di “risarcimento”, ponendo così rimedio a una ferita non ancora sanata. (antonio grieco)
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