In occasione della prima giornata di Chi racconta la città, oggi mercoledì 15 incontriamo al Teatro Nuovo (ore 17) Paolo Di Stefano, autore del libro La Catastròfa. Marcinelle, 8 agosto 1956. Segue una recensione di Corrado Stajano, pubblicata sul Corriere della Sera il 24 marzo 2011.
Era una bella mattinata di sole, senza una nuvola, come se ne vedono poche in Belgio, quell’8 agosto 1956, a Marcinelle. Poi, a rompere l’incanto, il fumo, le fiamme, le grida, i lamenti. La miniera brucia. Le donne, le mogli, le madri, i figli corrono al Bois du Cazier, una lunga agonia davanti ai cancelli, tra speranza e angoscia. Gli uomini sono là sotto, in quell’inferno, mentre urlano le sirene dei pompieri, arrivano le ambulanze, i soldati, la polizia, i medici, i volontari. Duecentosessantadue morti di cui centotrentasei italiani. La catastròfa, francesismo italianizzato, un colpo al cuore, ancora più violento del linguaggio corretto, è il titolo del nuovo libro di Paolo Di Stefano, l’autore di Baci da non ripetere, Tutti contenti, Nel cuore che ti cerca. Non è un romanzo, non è una cronaca, ma una narrazione, secondo la definizione di Walter Benjamin nel suo Angelus Novus. I personaggi sono tutti veri, poveri emigranti mandati al macello perché a casa loro, in Abruzzo, nel Veneto, in Sicilia, nel Molise, nelle Marche, nelle Puglie degli anni Cinquanta mancano pane e lavoro e quei manifesti rosa affissi ai muri che cercano manodopera per le miniere del Belgio allettano chi vive senza un futuro.
Narrazione di una tragedia corale, La catastròfa di Paolo Di Stefano (Sellerio) è un insolito libro dove l’impasto ben fuso di testimonianze, documenti, racconto ha un doloroso fascino che rompe con la sua verità storica, politica, soprattutto umana, gli schemi di certa letteratura nostrana di oggi fatta di piccine vicende condominiali. Di Stefano, anche in questo libro, è rimasto fedele al suo mondo di scrittore, le famiglie spezzate, gli orfani, la patria amata e perduta, l’ingiustizia del vivere, il passato e il presente. «Oggi – racconta – a sentir parlare i vecchi minatori, sopravvissuti, soccorritori, abbattitori, fuochisti, manovali, ingabbiatori, sorveglianti, porioni (capireparto), i compagni delle vittime, le vedove, gli orfani, non sembra che sia passato più di mezzo secolo. Sono ancora tutti lì aggrappati alle griglie».
Che cosa accadde l’8 agosto 1956 nei pozzi del Bois du Cazier? Pare che un ingabbiatore molisano, Antonio Iannetta, a 975 metri sottoterra, abbia commesso un fatale errore inserendo in modo sbagliato nell’ascensore in movimento due vagonetti, uno colmo di carbone e l’altro vuoto. La catastrofe. Si spaccarono le condutture dell’olio, i tubi dell’aria compressa, i cavi dell’alta tensione e scoppiò uno spaventevole incendio, senza rimedio in una miniera vecchia come quella, priva delle indispensabili attrezzature di sicurezza. Mancavano persino gli estintori. Antonio Iannetta fu subito fatto sparire, spedito in Canada dai dirigenti della miniera timorosi che fosse linciato dai parenti delle vittime, timorosi anche per quel che poteva dire, visto che si era contraddetto più volte.
I processi finirono malamente, fu condannato a una lieve pena per omicidio colposo soltanto l’ingegnere capo dei lavori di fondo e non fu ordinato dal tribunale alcun risarcimento giudiziario. Le vittime e i loro familiari furono trattati senza umanità, imbrigliati nelle più assurde pastoie burocratiche. Racconta Camilla, abruzzese, nata il giorno dei funerali di suo padre: «L’Italia ci ha abbandonato senza mai chiedere che cosa è successo a quelle povere donne e agli orfani come noi… Ci hanno promesso, ai figli quando diventeranno grandi, posti di lavoro di qua e di là e invece non ci hanno dato niente […] Chi è mai venuto almeno a vedere che fine hanno fatto tutti questi poveretti?». Di Stefano è andato a vedere, a Marcinelle, a Pescara, a Manoppello, altrove, ha chiesto, ascoltato, visto i documenti, si è calato nella mente delle vittime e dal suo libro è uscito un affresco doloroso della nostra Italia povera, di allora e anche di oggi.
Racconta Peppe, agrigentino, l’uomo dai due cuori, come diagnosticarono i medici: «Lo sapete che cosa ha detto il ministro del Belgio dopo il disastro? Ha detto: “Voi italiani siete buoni solo a venire a crepare chez nous, da noi”. […] Ora però io dico che ormai anche in Italia, al paese mio, sono addiventati tutti ministri del Belgio, un paese di ministri. Ci abbiamo dimenticati quanto siamo stati miserabili e oggi siamo tutti ministri che dicono: voi africani e zingari e albanesi siete buoni solamente a venire a crepare chez nous. Abbiamo ubliato la memoria di quanto siamo stati miserabili nel mondo». Spesso fa rabbrividire La catastròfa, tra furori e anche dolcezze, tra parole amare e piccole memorie conservate, la medaglietta del minatore, la lanterna, il caschetto, una fotografia sbiadita di tempi felici. Gli uomini-carbone.
Nel 1946 il governo italiano firmò un accordo con quello belga senza alcuna garanzia di sicurezza: manodopera in cambio di tonnellate di carbone secondo la produzione. Furono 867 i minatori italiani morti nelle miniere belghe dal 1946 al 1963. È ricco di storie umane, il libro. I padri tornano a casa dopo il lavoro neri come il carbone e i loro bambini non li riconoscono; il razzismo: «macaronìs», «ni chiens ni italiens»; «ci chiamavano con il numero non con il nostro nome, io ero il 709»; l’orrore che videro i soccorritori, i morti soffocati, gonfi e neri; la bara leggera leggera del minatore abruzzese: «Che fa Donato mio, sta a ballà dentro la cascia?»; gli orfani che vanno al cimitero e non sanno se vanno a pregare sulla tomba del loro padre o su un pezzo di carbone messo lì dentro. E poi Nino che non si è mai rassegnato, che non crede nelle versioni ufficiali del disastro, che non accetta la morte di suo padre Emidio venuto in Belgio dall’Abruzzo. Aveva nove anni, nel 1956, quando morì. Nino voleva vedere Antonio Iannetta, parlargli, sapere. Risparmiò tutta la vita per andare in Canada. Nel 2000 incontrò l’uomo dei vagonetti. Non servì. «Non ha pace, Nino, e non ne avrà», scrive Paolo Di Stefano. Lui come tanti altri orfani. (corrado stajano)