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31 Luglio 2023

A Civitanova Marche, un anno dopo l’uccisione di Alika Ogorchukwu

Alessandro Stoppoloni
(disegno di ottoeffe)

La mattina di sabato 29 luglio in corso Umberto I a Civitanova Marche, una città sulla costa adriatica poco lontana da Ancona, tutto sembra normale. I numerosi negozi sono aperti, Forza Italia ha organizzato un banchetto per il tesseramento e c’è un discreto via vai di persone. Un anno fa, proprio davanti a uno dei negozi della strada, il venditore ambulante nigeriano Alika Ogorchukwu venne ucciso da Filippo Ferlazzo. Il fatto fece scalpore e attirò l’attenzione anche di alcune testate internazionali, mentre molti si concentrarono sul mancato intervento delle persone presenti durante i minuti dell’aggressione. Al momento è in corso un processo nei confronti di Ferlazzo per omicidio volontario e rapina; in queste settimane l’imputato viene sottoposto a una seconda perizia psichiatrica per valutare la sua capacità di intendere e di volere al momento del fatto ed è possibile che la sentenza di prima grado arrivi entro l’autunno.

Sul posto in cui Ogorchukwu fu ucciso c’è un ragazzo con un cartello e dei fiori in mano, propone di prenderne uno e di fermarsi per un attimo di raccoglimento. Non c’è nessuna targa a ricordare quello che è successo. La poco distante piazza XX settembre, quella su cui si affaccia il palazzo del Comune, è occupata dalle bancarelle di un grande mercato, soprattutto di abbigliamento. Il clima vacanziero sembra contagiare tutta la città, esposta sul mare e ricca di stabilimenti balneari.

«Sii un beneficio per l’umanità, non solo per il tuo vicino, ma anche per chi è lontano da te». Le parole in inglese del sermone di pastor Faith, una donna con un abito nero e una giacca corta rosa, arrivano dal palco alla piccola platea di persone che nello spazio aperto del teatro Cecchetti di Civitanova Marche sta assistendo sotto un sole cocente alla cerimonia di commemorazione di Alika, organizzata dalla vedova Charity con la comunità nigeriana e dall’avvocato Francesco Mantella. Sono presenti anche un rappresentante dell’ambasciata nigeriana di Roma, dei giornalisti delle testate locali e alcune cittadine di Civitanova. Dalla spiaggia poco distante arriva la voce di una persona che sta facendo la cronaca di una gara di esercizi di ginnastica; accanto al teatro dei ragazzi giocano a pallacanestro. Alcune persone si fermano un attimo e poi vanno via, altre a piedi raggiungono il mare schivando la cerimonia. Il sermone di pastor Faith, recitato in inglese, ha ritmo e si mescola bene con la traduzione consecutiva in italiano. Alla fine si chiede ai presenti di intervenire: arrivano tanti ringraziamenti per le autorità italiane e per il Comune, che ha sostenuto economicamente la famiglia di Ogorchukwu subito dopo la sua morte, anche se non si può non notare che nessun esponente della giunta, guidata dal sindaco Francesco Ciarapica, ha deciso di partecipare all’iniziativa. L’omicidio viene evocato, ma non direttamente: si parla di “quella cosa”, di “quello che è successo un anno fa”. Il rappresentante dell’ambasciata italiana dice che l’Italia e la Nigeria hanno tanti interessi in comune, anche economici, e che quindi bisogna cercare di vivere bene insieme. Non sembra esserci nessuna intenzione di fare polemica. Roberto Mancini, consigliere comunale della lista Dipende da noi, cerca di allargare la prospettiva: «La morte di Alika è un seme per iniziare a lavorare insieme. In questa città ci sono indifferenza, violenza e razzismo. Giustizia non significa solo processare una persona, ma fornire lavoro, assistenza sanitaria e accoglienza. Bisogna fare in modo che a Civitanova nessuno si senta straniero».

“Justice for Alika” era la scritta che campeggiava sulle magliette che la comunità nigeriana aveva distribuito all’inizio della manifestazione del 6 agosto 2022 e che si snodò dallo stadio di Civitanova fino al centro della città. Nella stessa giornata un secondo corteo, organizzato da diverse realtà italiane unite sotto il nome di Coordinamento antirazzista, fece lo stesso percorso, terminando sul luogo dell’uccisione di Ogorchukwu. Questo secondo corteo evidenziava la centralità della matrice razzista nell’accaduto, impostazione criticata da diversi esponenti politici istituzionali ma anche da un comunicato dei Centri sociali delle Marche, che prendeva le distanze dal coordinamento, sostenendo che “contribuire in maniera semplicistica a incentivare la percezione di un razzismo generale, generalizzato e indistinto nella sostanziale totalità della popolazione, e strumentalizzare un evento tragico che a oggi non sembra avere nessun movente razziale per costruire una propaganda sulla percezione del razzismo, significa alimentare dinamiche che non possono che ri-generare il razzismo stesso”. In particolare, i militanti marchigiani mettevano l’accento sul fatto che la morte di Ogorchukwu, per le motivazioni e la dinamica con cui era avvenuta, non avrebbe avuto a che fare con l’uccisione di Emmanuel Chidi Namdi da parte di Amedeo Mancini avvenuta a Fermo il 6 luglio 2016 e con la strage tentata da Luca Traini a Macerata il 3 febbraio 2018.

Le numerose presenze in piazza di un anno fa, pur di diverso tipo e con differenti priorità politiche, sembrano in ogni caso, oggi, un lontano ricordo. La partecipazione alla celebrazione è molto ridotta, non più di qualche decina di persone. La commemorazione finisce con una breve preghiera. Ne inizia però, poco dopo, un’altra, nei locali della parrocchia della chiesa di San Pietro e Cristo Re, organizzata dal Comitato 29 luglio, nato in seguito alla morte di Ogorchukwu. Parlando con chi ha partecipato agli incontri traspare una certa delusione per come buona parte della città, e non solo quella che fa riferimento all’amministrazione comunale di centro-destra, abbia messo da parte l’uccisione di Alika, sostenendo che non fosse più il caso di tenere aperta la questione, anche per evitare di macchiare l’immagine di Civitanova. Quasi a rispondere a queste considerazioni, durante l’apertura del secondo incontro, è ancora Roberto Mancini a prendere la parola: «Siamo qui per ricordare una persona che è stata uccisa. Se manca una presa di responsabilità il fatto non può dirsi superato». Mancini sottolinea come sia difficile relazionarsi «con le diverse comunità migranti presenti sul territorio comunale» e quanto questo possa contribuire alla persistenza di situazioni problematiche, anche con elementi di razzismo.

A distanza di un anno, quello che sembra mancare è una reale elaborazione del fatto, soprattutto su quanto la morte di Ogorchukwu abbia influito sulla comunità locale e in quali circostanze sia maturata. Sarà forse impossibile determinare se Ferlazzo abbia agito seguendo un principio razzista, ma di certo l’idea che il problema riguardi solo chi ha compiuto materialmente il gesto ha effetti falsamente rassicuranti. «Anziché dire che non siamo razzisti potremmo ammettere che tutti abbiamo dei pregiudizi e che bisognerebbe lavorare per superarli», aggiunge ancora Mancini.

Ripercorrendo nel tardo pomeriggio corso Umberto I per arrivare alla stazione, a prima vista sembra tutto normale. Davanti al luogo dell’uccisione di Ogorchukwu però c’è movimento. In una piccola aiuola è rimasto il cartello che aveva il ragazzo durante la mattinata, insieme ai fiori. Intorno, alcuni giornalisti, i carabinieri e la polizia aspettano che chi sta partecipando alla seconda cerimonia arrivi lì per uno degli ultimi omaggi del giorno, in mezzo a una città che sembra avere voglia di pensare ad altro. (alessandro stoppoloni)

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