
«Da molto tempo Mazlum e i suoi amici erano chiusi in prigione. La polizia li torturava, non gli davano da mangiare, non gli davano da bere…». Lilan indica la foto appesa al muro, posizionata al centro di una cornice a forma di cuore. Incrociamo gli occhi severi di un giovane uomo, quasi un ragazzo, i capelli schiacciati sulla fronte secondo quella che doveva essere la moda degli anni Settanta. È uno dei sette fondatori del Partito dei Lavoratori del Kurdistan. «Per quelli come Mazlum, come per Sakine, per la mia famiglia e tutti i curdi alawiti, è ancora più dura che per i curdi musulmani. La polizia si accanisce, non hanno pietà».
Lilan è in esilio. Vive da oltre quarant’anni in Svizzera, dove si è rifugiata poco più che ventenne per sfuggire alle persecuzioni politiche. In questi brevi giorni siamo ospiti a casa sua. «Non gli davano nemmeno l’acqua per giorni interi – continua Lilan –. Ma Mazlum, piano piano, era riuscito a forzare l’inferriata della finestra. Così, quando pioveva, con la mano poteva raccogliere l’acqua. Faceva sempre in modo che fossero i compagni più indeboliti a bere per primi».
Lilan ci ha ospitato nelle camere della sua casa, ha cucinato per noi, ci ha offerto il tè. C’è qualcosa di infinitamente dolce nei suoi gesti, nella sua totale fiducia nei nostri confronti, stranieri e sconosciuti, e nella sua collana cucita all’uncinetto, dove la stella rossa su fondo giallo, simbolo della resistenza curda, si ripete più volte fino a trasformarsi in motivo ornamentale, e che indossa con la stessa naturalezza con cui mia nonna porta la croce al petto. Sta seduta su una poltrona mentre noi siamo seduti su due divanetti dalla foggia barocca, disposti intorno a un tavolino circondato da animali di porcellana. Su questo, frutta secca, bicchieri da tè di montagna. «Perché siete venuti a Basilea? – domanda Lilan – Siete venuti per imparare dai curdi cosa vuol dire lottare?».
In effetti, siamo a Basilea per partecipare alla conferenza “L’arte della libertà”, organizzata dall’Accademia della Modernità Democratica, una rete internazionale intenta a diffondere e discutere le tesi del movimento di liberazione curdo nel resto del mondo.
La conferenza, all’incrocio tra Svizzera, Francia e Germania, ha luogo tra il 17 e il 19 novembre ed è ospitata dal centro culturale curdo, nella periferia ovest della città. Si struttura tra momenti frontali e workshop, che proseguono dalla mattina alla sera. A rispondere alla chiamata siamo circa in duecento, a prendere la parola dal palco e coordinare i workshop sono militanti e attivisti da tutto il mondo: ci si interroga sull’autodeterminazione nazionale con baschi e catalani, sui rischi e le opportunità di portare la lotta anche all’interno delle istituzioni con la Rete Nazionale delle Comuni dal Venezuela e Potere al Popolo dall’Italia (unica rappresentanza di un partito occidentale presente), sulle strategie adatte a rilanciare la lotta su scala internazionale insieme alla rete del TSS (Transnational Social Strike). Si discute di rivoluzione con le donne del Rojava, e si raccontano le diverse esperienze di organizzazione dal basso, mettendo in dialogo esponenti del Fronte Popolare delle Filippine, le compagne indiane e sudafricane della Global Tapestry of Alternatives, o di Poder Popular in Colombia. Sempre presenti, ma non necessariamente in quanto protagonisti, i curdi e gli attivisti dell’Accademia della Modernità Democratica, allo scopo di mettere in dialogo il paradigma elaborato da Öcalan e le esperienze del loro movimento con altre prospettive e traiettorie.
Non so come fossero le assemblee della prima o della seconda Internazionale, né chi prendesse parola durante i Social Forum che scadenzavano le mobilitazioni del movimento No Global, e non so nulla sui momenti di incontro e discussione che i movimenti anti-coloniali e anti-imperialisti si diedero durante gli anni della guerra fredda. So che oggi a prendere parola, a dare forma a un nuovo internazionalismo, sono soprattutto persone provenienti da movimenti del sud globale, di quello che un tempo si chiamava “terzo mondo”, e poco tempo prima “colonie”.
So che oggi, tra coloro che sono venuti ad ascoltare e che hanno intessuto relazioni tra tè e sigarette, ci sono soprattutto persone tra i venti e i trentacinque anni, in larga misura provenienti dalle vicine Germania, Francia e Italia. Tra queste, la maggioranza è costituita da donne, quelle donne che nell’analisi di Öcalan hanno rappresentato la prima colonia e che oggi incarnano la rivoluzione in Medio Oriente e trasformano la politica dei movimenti dal Sud America all’Europa, mentre la componente più giovanile appartiene in larga misura a collettivi ecologisti in cerca di una proposta politica più ampia e ambiziosa.
Tra le tante cose di cui si è parlato, alternando momenti di confronto orizzontale in gruppi a momenti più frontali di interventi dal palco, due sono gli assi su cui si sono concentrate le riflessioni comuni: le questioni dell’esercizio del potere e della politica come prassi immediatamente etica.
La questione della distruzione o della conquista dello stato viene messa da parte, tanto in America Latina quanto in Medio Oriente, in favore della costruzione di autonomia e contropotere e delle prassi politiche e istituzionali necessarie al suo rafforzamento. Un piede nelle istituzioni, mille piedi nelle strade, dice una compagna colombiana che rappresenta una rete di realtà autogestite (e autodifese) presente tanto nelle città quanto nelle campagne: la chiamano teoria del poder popular, e così si chiama il loro movimento. Mentre procede a raccontare delle sfide e degli esperimenti messi in campo nel corso degli anni emergono moltissime somiglianze con il movimento confederalista curdo, tanto nel suo supportare la creazione di comuni e istituzioni dal basso quanto nella sua scelta di non disimpegnarsi dalla lotta politica all’interno delle istituzioni statuali. Passare dalla questione della conquista a quella dell’esercizio del potere, e cercare così di trovare un’alternativa strategica alla dicotomia che storicamente contrappose socialisti e anarchici, è però più complesso di quanto possa sembrare. Innanzitutto, anche tra i presenti, non tutti sono d’accordo.
Sebbene mossa da riflessi opposti, si percepisce una certa distanza rispetto a possibili percorsi istituzionali tanto da parte dei molti giovani occidentali quanto da parte della delegazione filippina, maoista, che propone la lotta senza tregua all’imperialismo, la direzione strategica del partito e la guerra popolare di lunga durata.
In secondo luogo, rimane da sbrogliare il nodo del ruolo del diritto e della legge in seno a una società rivoluzionaria, e quindi la definizione della differenza sostanziale tra un qualsiasi governo e le forme dell’autogoverno assunte tanto dalle istituzioni confederaliste quanto da quelle ispirate dalla teoria del poder popular. La sperimentazione delle comuni, urbane e agricole, e lo slancio verso una società etica e politica, dove le istituzioni statuali siano completamente superate, convive in Rojava con una carta costituzionale, la Carta del Contratto Sociale per l’Autogestione Democratica (che dal 2014 sancisce la separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario), ma più in generale con un insieme di strutture amministrative e burocratiche, tra cui le Asaish, incaricate delle funzioni di polizia, tribunali dotati di codici civili e penali. La stessa vita politica dell’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est è oggi divisa tra istituzioni municipaliste, assembleari e comunitarie, e istituzioni rappresentative, nelle quali diversi partiti prendono parte all’assemblea legislativa e quindi al governo centrale (chiamato consiglio esecutivo), incaricato di esprimere i ministri responsabili per diversi dipartimenti. D’altronde, nella sezione “principi”, aggiunta nel 2016, la stessa Carta recita: “La Federazione non punta a un nuovo Stato. Si fonda sulla nazione democratica e sulla società organizzata e vuole ridurre lo Stato”.
Affermare che il tema sia la gestione del potere piuttosto che la sua conquista non significa che il nodo del rapporto con lo Stato sia stato risolto, tanto in Medio Oriente quanto in Sud America. Al contrario, tanto per i rappresentanti della rete delle comuni venezuelane, che convivono con il governo chavista, quanto per la rete di Poder Popular in Colombia, dove in queste settimane è stato eletto il primo governo di sinistra nella storia del paese, la dialettica con le istituzioni statuali, a volte conflittuale, a volte più dialogante, continua ad assumere un ruolo centrale. Più di un superamento si tratta quindi di un ripensamento, di una riarticolazione di un problema storico ancora lontano da una completa risoluzione.
Oltre alla riarticolazione del tema del potere emerge il bisogno immediato, non posticipabile, di una vita e di rapporti differenti, di una morale e di un’etica diversa, da costruire fin da subito nella nostra socialità e nella nostra prassi politica, e non stupisce che ancora una volta siano le donne a porre il tema come centrale. Se in Sud America questo insieme di concezioni e visioni viene chiamato semplicemente buen vivir, in Kurdistan è l’Hevalti (“l’amicizia”) a essere il cardine della vita rivoluzionaria, libera e in comune.
A segnare una rottura con la tradizione dei movimenti occidentali non sono quindi i contenuti quanto le forme, dal momento che anche in occidente il bisogno di sperimentare fin da subito una socialità rivoluzionaria è stato al centro di infinite riflessioni, opere d’arte, momenti di ubriachezza e di festa collettiva. La differenza è che in questo caso a proporli e farli propri sono anche strutture politiche organizzate e formalizzate, dotate di programmi e di piattaforme progettuali, quadri e militanti di base.
Anche l’orizzonte temporale è differente: non si vive nel presentismo del movimento ma nella storia, e non nella storia del proletariato e della borghesia, ma nella storia della resistenza al colonialismo, al patriarcato, all’industrialismo, allo stato-nazione, al dominio in tutte le sue forme, compreso il capitalismo. È una storia non lineare, non determinista e non progressiva (in breve, non marxista), nel cui futuro c’è spazio per la riscoperta di forme di vita che non si sono lasciate cooptare dalla modernità capitalista, nel cui futuro c’è ancora spazio per immaginare un futuro, o come dicono i curdi, una modernità democratica, da contrapporre alla modernità capitalista. Ed è sullo sfondo di questo orizzonte temporale che si dispiegano, e assumono un senso, i programmi, le opzioni tattiche e strategiche del movimento curdo e degli altri movimenti di liberazione.
La mattina del terzo e ultimo giorno, dopo che sul palco si sono susseguiti gli interventi dei rappresentanti di diverse realtà e movimenti internazionali, un giovane tedesco a un certo punto domanda agli attivisti chiamati a confrontarsi: «Vi considerate confederalisti?». Risponde per prima una militante di Poder Popular dalla Colombia, e man mano che procede nel suo intervento il tono cambia, si alza fino a divenire impetuoso: «Crediamo che la resistenza e l’alternativa prendano forma dalla vita stessa, dalle lotte e dai sogni dei popoli in rivolta. Ogni popolo ha la sua cultura, una storia, le proprie tradizioni, anche politiche. La nostra forza, la nostra ricchezza, sta nel riconoscere le nostre affinità nella nostra diversità!». I traduttori faticano a tenere il ritmo: «I nomi che diamo alle nostre teorie sono diversi, come lo sono i nostri riferimenti politici, gli eroi dei nostri miti, i martiri delle nostre lotte. Ma è perché ci siamo opposti con tutte le nostre forze all’imposizione di un solo modo di vivere e guardare al mondo se oggi siamo qui da ogni angolo del mondo, a immaginare assieme le strade per la rivoluzione». Con altrettanta passione si succedono al microfono due attiviste della Global Tapestry of Alternatives, dall’India e dal Sud Africa: «Costruire un mondo in cui le culture non siano omogeneizzate dalla globalizzazione, in cui le cui società non siano standardizzate dal mercato, dal capitale, significa riconoscere che ogni popolo può e deve trovare da sé la strada verso il proprio futuro. La razionalità occidentale ha creduto di poter comprendere e organizzare l’intero universo. Nel corso degli anni, e non senza fatica, siamo riusciti a liberarci da questa prospettiva, nella quale le nostre voci e la nostra storia erano state fatte scomparire. E siamo riuscite a sviluppare la consapevolezza che si tratta di vivere, e comprendere, un pluriverso. Ciò è possibile solo declinando le razionalità e le progettualità al plurale».
Ripartiamo nel pomeriggio di quello stesso giorno. Torniamo a Torino, dove ho ripreso a declinare razionalità e progettualità al plurale anche durante i miei monologhi interiori. E mi chiedo: io, i miei amici e il paradigma, caro Apo, come dobbiamo fare? (apso)