
Anche quest’anno i miliardari si sono riuniti in consesso per il bene di noi comuni mortali. Jet privati, elicotteri e limousine hanno intasato la località sciistica di Davos in Svizzera per il World Economic Forum, la conferenza dell’esclusivo club di capitani d’industria, banchieri, manager di hedge fund e capitalisti di varia stirpe e fortuna che ogni anno si raccoglie in un resort tra picchi innevati (finché di neve ce n’è) per ascoltare cosa hanno da dire le migliori intelligenze e i governanti della terra sui problemi più urgenti del nostro tempo. Un meeting cruciale per presagire le traiettorie dell’economia globale, che rivaleggia con i summit degli stati e i partenariati internazionali per impatto e rilevanza. Tutti gli occhi puntati su Davos allora, per distillare da plenarie e sessioni la mole degli investimenti per l’ambiente e i piani per combattere le diseguaglianze. Siamo tutti sulla stessa barca, ci dicono dal club, e generosamente offrono i loro piani di trasformazione dello sfacelo dilagante in un eden di benessere collettivo.
O almeno questa è la linea dell’ufficio pubbliche relazioni del WEF, e di conseguenza della stampa globale. Piú concretamente – ché i soldi li fanno quelli pragmatici, si sa – i miliardari si ritrovano a Davos in spirito di solidarietá (di classe) per aggiornarsi sulle minacce al loro potere e capire come schiantare, o catturare, le forze a loro ostili, mettendo in piedi al contempo una “raffinata” operazione di auto-assoluzione e auto-investitura. Assoluzione dall’essere sempre più percepiti come i bad guys, avidi accumulatori di ricchezze illimitate a spese degli altri umani e della biosfera. E investitura del ruolo di paladini, gli unici a possedere le risorse e la capacità di visione necessarie per “salvare il mondo”. Su questo sono forse sinceri: intendono davvero salvare il mondo. Il loro mondo, quello fatto di chiare gerarchie e diritti di proprietà inalienabili, di flussi finanziari e lusso, della crescita economica come religione e del suo profeta il profitto; un mondo impregnato di deregolamentazione, privatizzazione e innovazione tecnologica monetizzabile. In buona sostanza, il mondo del capitalismo nella sua fase terminale, la cui necessitá è messa sempre più in discussione dalla scienza, dal clima, dalle rivolte e in definitiva dalla stessa realtà che produce.
A Davos sono presenti solo alcuni dei 2.153 individui che attualmente possiedono una ricchezza complessiva superiore a quella di 4,6 miliardi di persone, come ha sottolineato il piú recente rapporto dell’Oxfam, Time to Care, pubblicato il 20 gennaio. Guardare in questo abisso dà le vertigini. È arduo figurarsi la constatazione che le fortune personali dei ventidue uomini al vertice di questa classifica superano i possedimenti di tutte le donne del continente africano. E se pensassimo di non averne abbastanza, Oxfam ci informa che negli ultimi dieci anni il numero dei miliardari è raddoppiato. Sottraendo all’invisibilità egemonica un altro dato fondamentale. Il rapporto calcola che donne giovani e anziane dedicano a mansioni per assicurare la riproduzione sociale circa 12,5 miliardi di ore di lavoro non retribuito ogni giorno, un contributo all’economia globale di almeno 1080 miliardi di dollari l’anno, più di tre volte la portata del settore tecnologico. Lavoro non pagato, dunque, come continua fonte di ineguaglianza, di genere ed economica, ma anche e soprattutto immensi patrimoni e introiti non tassati da parte degli stati, il che priva il pubblico di entrate per i servizi di base e per le infrastrutture vitali.
E pensare che non è esistito nella storia umana un periodo più florido in termini di ricchezza prodotta. Nel 2019 sono stati battuti tutti i record precedenti, con una crescita globale di circa il sei per cento dal 2017. Certo, quasi la metà di tutta la ricchezza è ben salda nelle mani dell’un per cento della popolazione mondiale. Ma qualcosa sarà pure percolato in basso, andando a rimpinguare i redditi dei poveri, come da mito fondativo del capitalismo moderno.
A giudicare dai dati del Rapporto sulla Ricchezza Globale del Credit Suisse, secondo cui l’un per cento dei piú ricchi ha catturato la quasi totalità dell’aumento di ricchezza globale complessiva dal 2008, sembrerebbe di no. Sono stati il mercato azionario e le politiche di credito a basso costo delle banche centrali i meccanismi principali di questo processo di accumulo e concentrazione di ricchezza. Il prezzo di questi veri e propri sussidi pubblici ai mercati finanziari e agli oligarchi è stato pagato dalla classe lavoratrice, sotto forma di tagli alla spesa sociale, licenziamenti di massa, distruzione di pensioni e prestazioni sanitarie, e sostituzione di posti di lavoro relativamente sicuri e ben pagati con posizioni part-time, temporanee e contingenti. Finanziarizzazione, austerità, salvataggio pubblico del sistema finanziario e generalizzazione del lavoro informale, la ricetta dei non eletti di Davos per la (loro) “stabilità”, che lascia metà della popolazione mondiale con meno di sei dollari al giorno, nell’assenza crescente di servizi e reti di sicurezza, e con scarsissime prospettive di mobilità sociale.
Nelle conseguenze materiali che tali processi hanno avuto sulla vita di milioni di persone, dal primo al terzo mondo, vanno ricercate alcune delle cause principali dello spazio di manovra che si è aperto per il ritorno di politiche xenofobe, nazionaliste e autoritarie. Partiti di destra esangui e politicanti d’accatto hanno compreso che potevano dare una direzione alla frustrazione crescente orientandola verso l’altro, verso il basso e verso il fuori, scommettendo che alimentare la guerra tra poveri nel contesto d’impoverimento generalizzato delle classi lavoratrici portasse frutti. E i voti, le vittorie, le conquiste della nuova ondata populista sono effettivamente arrivate.
Il ritorno della presentabilità di fascismi di vario stampo sta prendendo quota proprio nel momento in cui il mondo avrebbe bisogno della massima cooperazione possibile per affrontare la sfida del riscaldamento globale. Se nel recente passato il tema principale del World Economic Forum erano le rivolte da New York al Nord Africa – un’altra “minaccia” che in alcuni casi è stata domata solo per poi riesplodere altrove –, in questi giorni i ricconi a Davos si crucciano principalmente su come gestire la questione epocale del clima preservando i propri interessi. Accreditarsi come risolutori è per i membri del club un imperativo. Dopo tutto, tra le loro fila ci sono gli attuali capi delle aziende maggiormente responsabili delle emissioni storiche, e tuttora in vetta, i direttori delle banche che li hanno finanziati e li finanziano, e i governanti che non sono intervenuti per disincentivare, regolamentare e dismettere i settori che essi rappresentano. Ottime mani, sicuramente. Chi meglio di coloro che hanno causato, nascosto e negato i cambiamenti climatici può intervenire nella transizione necessaria per evitare un futuro catastrofico preparando, nel contempo, le società agli sconvolgimenti che stanno già avvenendo? Se non fossero loro, rischierebbero seriamente di essere tagliati fuori, o addirittura espropriati.
E chi sono loro? Scorrendo la lista dei partecipanti, troviamo le banche e i fondi d’investimento più grandi al mondo: JPMorgan Chase, Bank of America, Citi, Goldman Sachs, Barclays, e tanti altri pezzi grossi. Tutti pronti a giurare che i loro asset sono al servizio della transizione ecologica. Ma spulciando il loro portfolio d’investimenti, grazie al lavoro investigativo di Bank Track, non possiamo non concludere che se il riscaldamento globale fosse un omicidio, loro sarebbero quelli che l’hanno incitato e reso possibile, pagando per pistola, proiettili e sicario. I veri mandanti. Dall’adozione dell’accordo di Parigi sul clima nel 2015 a oggi, trentatré banche globali hanno erogato 1900 miliardi di dollari a società operanti nel settore dei combustibili fossili (carbone, petrolio e gas). L’importo del finanziamento è aumentato in ciascuno degli ultimi due anni. In particolare, seicento miliardi sono andati ad aziende che stanno aggressivamente espandendo i loro progetti d’estrazione. JPMorgan Chase, che a Davos ha spedito cinque rappresentanti e il cui CEO Jamie Dimon ha pubblicamente supportato gli accordi di Parigi, è di gran lunga la più compromessa. Dal 2015, ha erogato 196 miliardi di dollari in finanziamenti per estrazione ed espansione di combustibili fossili, il dieci per cento di tutti i finanziamenti nel settore delle trentatré maggiori banche globali, e il ventinove per cento in più della seconda classificata, Wells Fargo. La Commissione europea non è da meno. Nell’elenco dei Progetti di interesse comune, che fissano le opere prioritarie per l’Unione, figurano diversi cantieri orientati al potenziamento della rete dei gasdotti (tra i quali, Tap, Poseidon e il collegamento continentale con Malta interessano direttamente l’Italia) cui potrebbero essere destinati nei prossimi anni circa 29 miliardi di euro. A Davos, però, Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ci ha tenuto a sfoggiare il Green Deal, la nuova strategia di crescita economica che vuole rendere l’Europa il primo continente neutrale dal punto di vista climatico entro il 2050. Quindi siamo a posto.
Grazie a tutto ciò, l’economia fossile gode di ottima salute. Per questo non stupisce che le emissioni globali antropogeniche di CO2 siano cresciute ancora nel 2019 (di quasi l’un per cento) quando dovrebbero scendere in picchiata per avere qualche speranza di mantenere il clima globale entro 1,5 gradi di riscaldamento, o al massimo 2 a essere realisti, secondo le indicazioni dell’ultimo rapporto dell’IPCC. Tale rapporto traccia anche i potenziali scenari futuri attraverso una pletora di modelli di riduzione reale delle emissioni e relativi effetti. Tra gli addetti ai lavori è risaputo: i modelli che offrono qualche possibilità di non sforare i 2 gradi di riscaldamento, per non parlare dell’1,5, impongono riduzioni delle emissioni talmente estreme e repentine che equivalgono a poco più che fantascienza, o fantapolitica a essere precisi. Ciò non vuol dire che non bisogna adoperare ogni mezzo per accelerare la riduzione delle emissioni: anche uno zero virgola di riscaldamento in meno o in più discrimina tra l’abitabilità o meno di un luogo della Terra, tra la pericolosità moderata o estrema di un’ondata di calore, o tra un uragano di categoria 5 ogni due anni oppure ogni sei mesi. Vuol dire, però, che non c’è più tempo per aspettare e per lasciarsi abbindolare da false soluzioni e da promesse attendiste.
Come ha intimato Greta Thunberg al club di Davos: «Dovete interrompere immediatamente tutti i finanziamenti all’esplorazione ed estrazione di combustibili fossili, eliminare tutti i sussidi ai combustibili fossili e disinvestire dai combustibili fossili. Non nel 2050, nel 2030, e nemmeno nel 2021. Noi vogliamo queste cose adesso». Con coerenza d’acciaio, la ragazzina corteggiata dai potenti li ha messi spalle al muro: «Finora nulla è stato fatto e le persone continuano a morire di cambiamento climatico». Nei luoghi dei disastri e dei conflitti lo sapevano, lo hanno sempre saputo. Greta ci sta arrivando. Le soluzioni non discenderanno dall’alto appellandosi alla ragione e ai sentimenti dei potenti. Un dato che impone ai movimenti climatici una riflessione collettiva sugli scopi e le strategie.
Se il clima come oggetto politico ha attivato milioni di persone durante l’ultimo anno, generando in certa misura un movimento globale trasversale alle geografie e alle generazioni, ora è arrivato il momento di liberare il clima dall’ambientalismo e di congiungere la necessità del ripensamento dei sistemi produttivi alle questioni sociali del lavoro, dell’esclusione, delle migrazioni e della sopravvivenza. L’ambiente inquadrato come un settore tra gli altri perpetua l’illusione di autonomia dei sistemi sociali da quelli ecologici, separa le lotte e presta il fianco a interventi mistificatori. Redistribuzione della ricchezza, diritto alla mobilità e a compensazioni, uguaglianza sostanziale, democratizzazione delle decisioni, fine del militarismo, sono tutte questioni climatiche e impongono la ricomposizione dei movimenti e della società civile in coalizioni eterogenee, locali e internazionali. Il preludio a tali alleanze si inizia a osservare in Francia nella convergenza tra Gilet Gialli, categorie in sciopero generale e movimenti climatici, che marceranno insieme al prossimo sciopero globale del 14 febbraio. I movimenti recenti come Extinction Rebellion e Fridays For Future sono riusciti a galvanizzare le strade e sono cresciuti in termini di consapevolezza, ma rischiano l’irrilevanza se alle richieste attraverso la disobbedienza civile non uniscono azioni dirette tese a fermare i processi deleteri. Una linea va tracciata e gli esempi non mancano: dall’auto-demarcazione dei territori indigeni contro la deforestazione, ai blocchi anticapitalisti delle infrastrutture dell’economia fossile. Infine, occorre dare nuovo slancio all’autorganizzazione sociale per rispondere ai disastri frutto dell’intreccio tra cambiamenti climatici, marginalizzazione e impoverimento. Lo sanno bene a Nuova Dehli come a New Orleans: quando l’apocalisse diventa quotidiana il conto in banca e il colore della pelle determinano l’aiuto che riceverai. Strutture autonome di cooperazione, piani di quartiere per il supporto reciproco, centri sociali e luoghi di comunità in grado di trasformarsi in piattaforme di stoccaggio e distribuzione di risorse in caso d’emergenza, e la messa a sistema di orti urbani, ambulatori solidali e reti di produttori, sono tutte strade praticabili adesso, una dimensione concreta d’intervento che unisce transizione, preparazione e creazione di autonomia, fungendo da base ricompositiva per vecchi movimenti sociali e nuovi movimenti climatici.
Quando gli ultimi jet privati voleranno via da Davos, il baraccone dei ricchi avrà messo insieme almeno due o tre “svolte epocali” e altrettanti “progetti risolutivi” per il bene dell’umanità. Ovviamente, nei loro piani, tutto cambierà affinché tutto resti com’è. Il che per noi significa: o imponiamo la fine delle false soluzioni, o le false soluzioni imporranno la nostra fine. Non la loro. (salvatore de rosa)