
Circa tre settimane fa il governo greco ha rifiutato un’importante offerta della maison Gucci, che prevedeva l’affitto dell’Acropoli di Atene per una sfilata. La casa di moda fiorentina ha messo sul piatto cinquantasei milioni di euro (tra affitto del suolo, sponsor, diritti televisivi e restauro del sito) che il ministero greco ha rifiutato perché «il valore e il carattere dell’Acropoli è incompatibile con un evento di questo tipo»”.
Il mondo accademico e intellettuale ha accolto con entusiasmo il rifiuto greco: “È commovente che questo ‘no’ venga da Atene, culla di ogni idea di democrazia. Da un’Atene in tali condizioni economiche da rendere ancora più ammirevole la dignità di questo no”, scrive Tommaso Montanari, professore della Federico II di Napoli. Entusiasta anche il poeta greco Pantelis Boukalas, che dalle colonne di H Kathimerini afferma che “il Partenone è parte del patrimonio culturale dell’umanità non solo perché è bello, ma perché è un luminoso simbolo di democrazia”.
Della situazione sembra invece volerne approfittare Giuseppe Parello, architetto che dal 2012 è direttore del parco archeologico di Agrigento e, dal 2015, anche di quello di Selinunte. Parello ha dichiarato che «iniziative come questa hanno un risvolto positivo anche per la nostra immagine». Il sito siciliano ha già ospitato, un anno fa, una cena di Google e alcuni concerti.
Il blocco “anti-Gucci” punta sul ruolo di democrazia che Atene e la Grecia assumono oggi, in una chiave retorica che affonda le sue radici all’indomani della battaglia di Navarino del 1827, quando un’alleanza europea strappò il paese ellenico ai turchi. La democrazia ateniese – quella antica – non ha molto da condividere con la nostra, se non il nome, che però i greci (quelli antichi) usavano non di rado con disprezzo, come Aristotele o l’anonimo autore de “la costituzione degli ateniesi”, libretto polemico da non confondere con la più nota opera aristotelica, di attribuzione incerta. Il Partenone, più che “luminoso simbolo di democrazia”, fu piuttosto la cifra artistica dell’imperialismo ateniese.
È negli anni successivi alla liberazione del paese ellenico che nasce il “mito greco”: in Grecia sarebbe nata l’intera cultura occidentale. Fu un’operazione fatta a posteriori, figlia dell’influenza illuminista e impiantata in un paese che dal 1453 (anno della caduta di Costantinopoli) era più asiatico che europeo. La Grecia, priva di una propria classe dirigente, fu retta da principi bavaresi che ricostruirono (è il caso di dirlo) l’Acropoli che conosciamo, eliminando ogni traccia archeologica della presenza turca e medievale. Il risultato fu un’ipotetica riproduzione dell’Acropoli del tempo di Pericle, aggiustata nel XX secolo con una serie di restauri e scavi filologici.
La crisi greca, conseguenza di una crisi economica su larghissima scala, che ha toccato anche i beni culturali, ha riattivato questa retorica. Non solo. Il poeta Boukalas parla anche di “bellezza” del Partenone, restaurato dai suoi primi scavatori proprio seguendo il canone della bellezza piuttosto che della sua storia, molto travagliata e non solo “greca”.
Aprire un patrimonio dell’umanità a una sfilata di moda può sembrare fuori luogo, sebbene l’offerta – qualora sia stata vera – è invitante, considerato che l’intero comparto turistico greco guadagna quarantuno milioni di euro annui.
D’altro canto, blindare l’Acropoli e trasformarla in un sacrario per turisti e studiosi, rischia di essere una ricostruzione non meno fittizia e astorica, incapace di dialogare col presente. Ogni opera nei secoli ha avuto una rifunzionalizzazione, spesso anche invasiva: il restauro del Laocoonte a opera del Montorsoli, per esempio, o l’uso che i cittadini della Arles medievale fecero del teatro romano, includendolo nelle mura e trasformandolo in fortezza. Un agire dettato non da una minore sensibilità per l’antico, bensì diversa: già testimoni tardo-antichi come Nicomaco Flaviano, Cipriano e Rutilio Namaziano, che scrivono nell’ultimo secolo dell’impero romano, dimostrano una certa sensibilità per il decadimento della cultura e dell’arte.
La proposta di Gucci, stando a quanto si è letto, avrebbe occupato il suolo dell’Acropoli per un quarto d’ora e coinvolto circa trecento invitati. Nulla a confronto dell’arrembante assalto delle migliaia di turisti che ogni giorno affollano il sito. Se bisogna ridiscutere l’immagine di un bene culturale, restaurandovi intorno un ipotetico contesto – quello originario è irriproducibile – è necessario ridiscutere l’uso che invece oggi è più largamente accettato di un bene culturale, come sede per esempio di concerti (l’arena di Verona o il teatro di Taormina), e anche lo stesso uso turistico, di cui il Partenone e il suo complesso museale ai piedi dell’Acropoli sono un esempio, con visitatori poco educati, negozietti di gadget e ristoranti. Tenendo presente, tuttavia, che anche le bellissime pièce di teatro antico, che ogni anno si tengono a Siracusa, sono frutto di interpretazioni e adattamenti, estranei al contesto in cui nacquero, riadattate a un consumo più largo e meno “filologico”. E giustamente, altrimenti sarebbero indigeribili.
Se il problema è il denaro, allora anche un’opera di Eschilo non è adatta ai monumenti antichi, se non a titolo gratuito. Se il problema è la cultura “pop”, di cui la moda fa in qualche modo parte, allora bisogna chiudere il bene culturale a tutto, anche al turismo, e aprirlo solo a scuole e università, così che mantenga il ruolo elitario di educatore sociale che noi occidentali ci siamo inventati, e che di certo non ebbe in origine (alessandro cocorullo).