
Era grossa la faccia di Jorgos, nella taverna sull’isola di ferro, un tempo abitata dai minatori di una miniera chiusa dagli anni Sessanta. Persistenza visiva nelle montagne, negli scorci al di là delle curve e nelle strutture arrugginite ricoperte dalla vegetazione, tra i carrelli, i binari e il mare, la natura se n’era riappropriata nel corso del tempo. Noi ci aggiravamo sull’isola da due giorni con il motorino e sembrava fossero passati due anni. Una lapide sulla spiaggia di MegàloLivadi ricordava lo sciopero del millenovecentosedici, tra i primi del paese, se non il primo.
Jorgos, dicevo: che giorno era? Sorseggiavamo tzipouro offerto dalla casa mentre lui affermava che Tsipras ad Atene aveva votato no, poi era andato a Bruxelles e aveva votato sì; che sull’isola ognuno ha la fattoria, l’orto, gli animali, il vino e il formaggio locale, qualcosa a metà strada tra la ricotta e la feta; che ai tempi della miniera sull’isola ne erano in settemila e ora ne sono poco più di un migliaio; che i problemi della vita quotidiana ad Atene arrivano sull’isola in ritardo di mesi, come un qualsiasi fortunale. Ventiquattro anni, una laurea in ingegneria, decisamente sovrappeso, Jorgos sarebbe partito per il militare portandosela dietro, l’isola. L’abbiamo rivisto mentre aspettavamo il traghetto di ritorno, seduto a bere il caffè freddo e a fumare. Un vecchio di fronte a lui gli ha chiesto dove andava. Ad Atene, poi al militare; non ho lavoro. “Povero bambino mio”, mi pare che esclamò. Lui non rispose niente.
Dal Pireo, l’idea in testa di quello che Serifos voleva significare era chiara, poi scomparve di lì a poco. Fuori al porto non c’erano più quelli che di giorno facevano il gioco delle tre carte, i bar di terz’ordine avevano chiuso e i palazzoni che a prima vista sembravano abbandonati lo erano. Uffici vuoti e ufficiali, caldo appiccicoso, navi alla fonda, magazzini, fabbriche dismesse, cantieri e terminal dei contenitori. Neanche un’onda per via della bonaccia, l’acqua di mare era una distesa d’olio.
Ma nella metropolitana, verso Atene, occorreva fermarsi un attimo a ricordare. Quando, per esempio, l’anno scorso la presenza dei poliziotti per le strade era più invasiva. O quando eravamo sulla collina di Filopappou una sera insieme agli altri, a prendere aria guardando la città dall’alto, e Jasonas indicava un punto in mezzo al cemento esclamando con il tono ironicamente stupefatto, simile a chi cerca di raccontare una fiaba ai bambini: “Lo vedi quello? Sì, quello, lo stadio olimpico! Bankrupt, bankrupt!” – e bankrupt diventò subito parola-tormentone. Ora, dopo un anno, si ritornava senza illusioni. Qualche mese dopo il referendum e i negoziati, qualche settimana prima delle elezioni, le quarte in tre anni e mezzo. Alle spalle lasciavamo le tante speculazioni degli inguaribili ottimisti e degli esperti di macroeconomia, preferendo alle loro parole quelle degli sconosciuti incontrati in giro per caso, tra souvlaki e metafore. Poi c’era l’esistenza di ciascuno di quegli amici legati tra loro dalle tante battaglie – perse o vinte, conta poco –, gente che vale la pena di stringere forte almeno una volta l’anno. Le loro voci, autentiche come la loro rabbia, sussurrate in quelle semplici serate trascorse a discutere del futuro e a ridere sul tetto di cemento nel quartiere di Sepoja, appartenevano alla microeconomia reale di questo paese.
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Gli immigrati se ne stavano accampati nella piazza fuori alla stazione di Victoria e le sterpaglie erano cresciute in mezzo al cemento lungo i marciapiedi di Stournàri, che alle sette di pomeriggio del giorno dopo era silenziosa. Avevamo appuntamento con un amico di amici che gestiva una caffetteria nel quartiere di Gazi. Passammo a cercarlo da quelle parti qualche sera prima, e lo trovammo fuori al suo locale svuotato di ogni cosa. Era stato costretto a chiuderlo. Riuscimmo a stabilire un appuntamento per quel sabato in un bar di Exhàrkia.
Seduti al tavolino, di fronte a noi degli adolescenti si allenavano alle arti marziali prendendosi a calci in mezzo alla piazza. Il nostro amico parlava con molta calma un francese fluente, senza fretta. Accennò all’antico concetto di Seisàchtheia (Σεισάχθεια), al fatto che questa parola indica le riforme fatte da Solone che miravano all’estinzione dei debiti dei contadini. Difficile da tradurla, se non come scuotimento, scioglimento dei pesi, o proprio come peso sulle spalle. Lo stesso che i greci portano dopo anni di duri attacchi del capitale, diceva il nostro amico. Raccontava che Tsipras non si aspettava una vittoria così netta del no al referendum, che auspicava una differenza risicata tra il sì e il no, perché in tal modo gli avrebbe fornito maggiore legittimazione per accettare l’ultimo memorandum imposto dall’Unione. Invece la vittoria schiacciante del no l’ha posto di fronte a una doppia beffa, oltre che a spiazzarlo. Il nostro amico parlava dell’indebolimento della gente di fronte ai problemi legati al vivere quotidiano. Anche lui era indebitato, aveva perso la casa, lo diceva senza enfatizzare, del resto era normale, c’era poco da stupirsi. Dai disordini del duemilaotto, a seguito dell’uccisione da parte di un poliziotto di uno studente di quindici anni, la storia li aveva forzati prima alla subordinazione, poi al compromesso, ma non era finita qui. Il paese era arrivato a un limite.
Attraversammo la piazza alle quattro di mattina, mentre una rissa coinvolgeva gli stessi ragazzini che si allenavano di pomeriggio contro un uomo solo difeso da una donna. Verso Stournari sentivamo puzza di plastica bruciata. Più camminavamo, più gli occhi cominciavano a lacrimare e la gola a raschiare. A terra c’erano resti di pietre e cassonetti spostati.
Spiros, davanti al bancone di un bar autogestito di Petràlona, l’indomani parlava di mancanza d’immaginazione. Un anno che non lo vedevo, eppure non era cambiato per niente, se non per il fatto che aveva smesso di fumare tabacco. Descriveva i giorni precedenti al referendum come un anomalo ferragosto durato per settimane, un’atmosfera bizzarra per non dire surreale. Leggendo tutte quelle cifre reclamate da banca centrale europea e fondo monetario internazionale, veniva da chiedersi di cosa stessero parlando. Tutto era chiuso tranne i kafenìon. La gente di Petràlona stava in mezzo alla strada, partecipava al corso degli eventi discutendo di ciò che stava accadendo, spendendo i soldi rimasti in taverna. I gruppi e i collettivi politici litigavano tra loro, le discussioni erano interminabili. In quei giorni c’era chi scherzando proponeva di andare a fare un giro in banca, sostituendola alla piazza. Scettico di indole, Spiros parlava con fervore. Quello che manca è l’immaginazione, ripeteva.
A Syntagma, stravolti dal caldo, dopo aver assistito a un imbarazzante cambio di guardia fuori al palazzo del governo, salimmo su un taxi guidato da un tassista con i capelli lunghi lisci legati, l’ennesimo volto angolato, uno scorpione tatuato sulla mano sinistra tra il pollice e l’indice. Alla domanda sul referendum rispose di aver votato no. Ovviamente, aggiunse. Disse di essere antifascista e contro tutti, poi passò a discutere di calcio e dei fratelli livornesi. Poco prima di farci scendere ci mostrò la spalla tatuata con i simboli dell’AEK Atene.
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Infine ci pensavi quando la scrutavi prima di andare via, camminando sotto al muro pur di evitare il sole, superando negozi chiusi e cartelli di “affittasi” e impalcature intorno a palazzi antichi sfasciati. Ti domandavi di che natura fosse la relazione tra crisi finanziaria, ricatti economici, riforme e giorni che passavano attraverso quelle voci di fondo. Questione d’immaginario. L’atmosfera di decadenza, il disagio, le siringhe lungo la strada al lato del politecnico, l’afflizione nei volti di certa gente che incrociava il tuo sguardo per strada, quattrocentomila greci che votavano Alba Dorata: tutto sembrava suggerire che le cose si stavano mettendo nel peggiore dei modi. Eppure l’immagine in superficie non era scontata; qualcosa, in quell’atmosfera, ci suggeriva tutt’altro che depressione. I resti della storia recente avevano lasciato i segni, si percepivano nelle assemblee di quartiere, si leggevano – per così dire – nell’alfabeto stampato sui manifesti, sbiaditi e scollati sui muri, ricoperti ovunque dalla prima lettera dell’alfabeto cerchiata, da avverbi di negazione e scritte contro l’euro, il debito e l’Unione. Le chiazze di vernice avevano compromesso la facciata di un palazzo con le telecamere distrutte lungo Patissìon. E poi, tra le oasi urbane involontarie, la vita scorreva nel caos come sempre, ma ciò che forse cresceva veramente in quei giorni d’inizio settembre, e che sarebbe continuato a crescere dopo la nostra partenza, era tutta quella mole di dubbi e incertezze da collocare: andare via dal paese o restare, cercare un lavoro o lasciar perdere, rinunciare o pretendere, continuare a credere oppure credere in niente, restare fermi o muoversi. Rassegnarsi o continuare a lottare. (andrea bottalico)