
“I ragazzi a San Gersolè non smettono mai di andare a scuola. Anche d’estate si va a casa dalla maestra, sotto il grande albero di cachi, a scrivere, a disegnare, ad ascoltare le storie che racconta”.
La maestra è Maria Maltoni, figlia di vocali toniche e idee mazziniane che dal ’20 al ’56 nella campagna toscana animò la “scuola più famosa d’Italia”: una casa di contadini, piena di fiori e di rami d’albero, con una grande stufa e i banchi a cerchio. Qui ogni giorno gli alunni osservavano la natura, scrivevano diari dettagliati della loro vita quotidiana e facevano tantissimi disegni. Bello. Ma io sto a Calvairate, tra i palazzi e le paraboliche, ho problemi di pronuncia con i dittonghi, idee confuse e allergie diffuse. Allora ricordo le parole di quel matematico napoletano: “Solo quelli che si limitano saggiamente a ciò che pare loro possibile non avanzeranno mai di un passo” e dimentico cera e piume per costruire ali più solide. Ora che la scuola è finita, è tempo di sragionare, farneticare e nazzicare.
Li invito sotto il nespolo che c’è nel cortile, magari ci viene voglia di discutere della crisi nei rapporti tra uomo e ambiente, verso un’ecologia della mente, invece va a finire più o meno così: vividi e selvatici, a contatto con l’erba e il terriccio, gli si accende una fiamma nel basso ventre, quasi avessero scorpioncini attaccati al tubo digerente, nello sguardo come un vento che trascina, si infilano tra le inferriate del cancello di fronte, recuperano rami per farne armi, costruiscono anagrammi, ricolmi di possibilità si avvicinano al nespolo e iniziano a batterlo, sfiuuu sciuuu, le foglie tremano, le nespole cadono, sbaragliate, spiaccicate, splash. E io, con i Ramones in testa che mi urlano I don’t wannna grow up, vorrei fare lo stesso, le nespole neanche mi piacciono, mica sono dolci come le albicocche. Ma sono la maestra, non posso divertirmi davanti allo sfascio di un albero, Maria Maltoni che avrebbe fatto? E se ci vedono dai balconi, che dico? Loro serpenti nei capelli di Medusa, io una parrucchiera che li deve pettinare, che follia.
Quasi avessi sotto i piedi una zattera, inizio il salvataggio del nespolo, confisco le armi, gli dico che non si fa, che i frutti si raccolgono con cura per mangiarli – se sapessero quanto sono amari – e che devono prendere tutti quelli ancora buoni da terra e portarli in tavola, dopo le nove e un quarto che c’è il ramadan. E loro li raccolgono, quelli ancora sani, per scaraventarli a uno a uno, come fossero calamità naturali, nel fossato vicino ai frisbee. Al di fuori di ogni preoccupazione estetica e morale, sono surrealisti puri ma devo sgridarli. Anzi faccio di peggio, li ricatto: «Se continuate così, me ne vado». Vedo Maria Maltoni che mi sorride, fa di si con la testa e se ne va.
Dopo la tempesta, la magia. Tiro fuori dallo zaino una macchinetta fotografica usa e getta, quella della Ilford in bianco e nero, vasta latitudine di posa, grana fine, con obiettivo grandangolare e grande mirino. I compiti per il nostro prossimo incontro sono: dividersi le foto – la prima la scatto io a loro, glie ne restano tredici a testa, il calcolo lo fanno insieme, rapidissimi – e fotografare quello che vogliono, l’importante è farlo con la luce del giorno e ricordarsi di far girare la rotellina dopo ogni scatto. Non gli ho detto niente del flash, potrebbero scoprirlo da soli e smascherare fantasmi oppure schiantarlo sull’occhio della luna, vedremo. Non gli ho detto neanche che le foto saranno in bianco e nero, ho pensato non fosse importante. Tutto registrano e ricordano, non una parola, un gesto, tantomeno un colore, loro sfugge. Adesso staranno litigando per chi tiene la macchinetta, fissando i numeri che scattano alla rovescia, staranno pensando a come fotografare, in verticale o in orizzontale, a non farla mangiare dalla sorellina, a cosa tenere dentro e cosa fuori dall’inquadratura. Io sto pensando a come piovere nella loro testa, a quando gli andrò incontro sfuocata per farmi consegnare la pellicola e a quando ritornerò, profumando di nitrato d’argento, con le foto in tasca. Sarà una festa del già visto, un inno all’aura e allo choc, una vertigine di apparizioni e sparizioni. Con le loro visioni e la nostra amicizia sfideremo questo secolo. In bianco e nero. (giusy palumbo)