
Nel lontano 1649, presso la collina di San Giorgio, situata a sud dell’Inghilterra nei pressi di Londra, un gruppo di contadini rivoluzionari denominati Diggers (Zappatori) si appropriò di alcuni terreni comunali incolti per dare vita a una delle prime esperienze di comune agricola. Sotto la guida di Gerrard Winstanley, predicatore e profeta nonché portavoce dei Diggers, il progetto aveva le sue radici nella rivendicazione della terra come bene collettivo da coltivare e attraverso cui creare condizioni di vita comunitarie.
Amministrate fino a quel momento secondo il diritto consuetudinario (che permetteva ai contadini di usare le terre comuni in modo libero e gratuito), quelle terre vennero progressivamente recintate e illegalmente sottratte al libero utilizzo. I contadini diventarono classe operaia. Dipendenti da un salario ed espropriati delle loro terre, si videro costretti a lavorare nelle fabbriche delle città in condizioni che non avevano niente a che vedere con quelle della loro vita precedente.
Centinaia di anni ci separano da questa esperienza comunitaria, che nonostante le sue radici religiose (il termine Digger deriva da un passo della Bibbia) può tornarci utile in questi tempi in cui il libero utilizzo di beni comunali o statali da parte di collettivi di cittadini viene messo in discussione da parte dalle istituzioni. Al netto delle numerose differenze, l’utopia rurale dei Diggers proponeva un modello di società diverso da quello che si andava lentamente imponendo. Fondata sulla possibilità di una vita in comune grazie alla collettivizzazione del lavoro, delle risorse e dei beni, l’alternativa anti-borghese dei Diggers dava un posto centrale all’autogestione, ritenuta ancora oggi fondamentale dai numerosi movimenti dal basso presenti in tante città italiane e continuamente osteggiati dalle istituzioni.
Anche a Bologna, nonostante non ci sia la volontà di costituire una comune agricola che difenda l’uso di terreni comunali incolti (sebbene la lotta per i Prati di Caprara abbia alcune affinità con quella dei Diggers), la difesa dei beni comuni rimane un caposaldo. Come spesso accade, però, per queste lotte il lieto fine non esiste quasi mai. Non sorprende quindi lo sgombero della ex-Caserma Sani, avvenuto il 16 gennaio scorso per volere di Cassa Depositi e Prestiti (società finanziaria a prevalenza statale) con il beneplacito del Comune. L’occupazione, effettuata in risposta allo sgombero di XM24 del 6 agosto 2019 da parte della giunta Merola (Pd), risaliva al 16 novembre scorso e intendeva dare continuità al processo di autogestione portato avanti per diciassette anni da XM24. A tre mesi dall’occupazione, lo sgombero cerca di porre nuovamente fine a un’esperienza collettiva che, in pochissimo tempo, era riuscita a coniugare differenti progetti, rivendicazioni e modalità di fare politica al di fuori degli spazi e dei modi soliti.
Negli stessi giorni in cui lo sgombero veniva pianificato ed effettuato da parte della Procura, all’interno del palazzo comunale il sindaco Merola e il ministro della difesa Guerini firmavano il “Protocollo sulla valorizzazione delle ex-caserme Perotti e Stamoto sul territorio del comune di Bologna”, documento finalizzato a valorizzare gli immobili militari presenti nel territorio.
Definita come l’ennesima possibilità di rigenerazione urbana nonché come occasione di rilancio per l’economia locale, la riconversione delle strutture militari non più necessarie alle forze armate comprenderebbe la “riqualificazione” di circa duecentomila metri quadri di superficie; una quantità di spazio pubblico enorme e che, a detta del sindaco, verrà messo a disposizione di tutti i cittadini. Peccato però che una parte del protocollo sia deliberatamente tenuta segreta. In quanto aree demaniali, e quindi statali, le caserme in questione, così come la Sani, occupata dal collettivo di XM24, non possono essere vendute né diventare oggetto di diritti a favore di terzi essendo, a tutti gli effetti, aree su cui si esercita l’uso pubblico e di cui la collettività può godere i benefici e l’utilizzo.
La clausola segreta è quindi da considerarsi come una sottrazione del potere che la comunità stessa “detiene” su questi immobili, nonché la riprova che, in fin dei conti, parole come partecipazione dal basso e co-progettazione non sono altro che strumenti demagogici usati per ottenere consenso politico. Che il protocollo venga inoltre firmato a pochi giorni delle prossime elezioni regionali la dice lunga su quali potranno essere le modalità di governo del territorio che intende perpetuare il Pd se ottenesse, faticosamente, la vittoria sulla Lega.
In risposta allo sgombero e alla stipula del protocollo segreto, venerdì 17 gennaio centinaia di persone si sono riunite in presidio in piazza Maggiore per protestare contro un sistema di governo che privatizza i beni comuni ed è sempre più incapace di dialogare con quella parte di città che ancora crede nella capacità di autogestire spazi, corpi e vite aldilà delle retoriche istituzionali. Per omaggiare il sindaco, l’assessore Lepore, l’assessore alla sicurezza Aitini, il ministro dell’interno e gli assenti ma pur sempre coinvolti vertici di Cassa Depositi e Prestiti, i manifestanti hanno depositato diversi chili di letame davanti alla porta d’ingresso del Comune. Così come nel 1334 i bolognesi cacciarono il cardinale francese Bertrand du Pouget dalla rocca di Porta Galliera catapultando chili di merda dentro alla fortezza fino a farlo scappare (evento da cui Dario Fo trasse un indimenticabile brano teatrale e a partire dal quale il poeta Gastone Vandelli scrisse un’irresistibile poesia in dialetto bolognese), a distanza di centinaia di anni le iniziative di protesta proseguono a conferma del fatto che, ieri come oggi, ci sarà sempre chi si opporrà a una speculazione travestita da rigenerazione. (rita marzio)