
Lo sai cos’è morire? È finita la vita. Finiti baci sulla bocca, bere birra, attraversare la strada, imprecare. Finite le risate con gli amici, gli abbracci alle persone care, finite brighe di bar, finito mangiare a bocca aperta, dormire fino a tardi. Finito il sentire fame, sonno, paura, desiderio. Fine, finito. Si può morire di tante cose: malattie, incidenti, tempo. Morte sopraggiunta o procurata. Si può morire uccisi. Le persone piangono, sentono mancanza, dolore, si lamentano. Alcune volte ignorano. Oppure si indignano, protestano, reclamano. Stare in strada, nel Brasile, uccide. E uccide anche con occhio clinico: quasi sempre uccide “nero”, uccide “povero”, uccide “la gente che non conta”, che non si nota. Morti che non fanno rumore. E neanche lo dice nel modo giusto. Dice così: morì, è morto. No, non è morto. È stato ucciso. (articolo apparso sul blog Biscate Social Club)
Nella notte tra lunedì 24 e martedì 25 sono state uccise (“morirono”, dicono) dodici persone. Neanche il conto è certo, ciascuno “dice” e conta le morti che non contano. Nel grande complesso di favelas della Maré (situato nella periferia nord di Rio de Janeiro) la polizia ha ucciso dodici persone. Si cercano i nomi per scriverli e riportarli in un articolo ma non si trovano, o meglio si trova solo quello del tredicesimo morto, il sergente del BOPE (battaglione delle operazioni speciali della polizia). Anche nominare la morte diventa un privilegio. Le giustificazioni sono quelle di sempre: erano banditi, criminali oppure “sospetti”. Le persone accendono la televisione e ascoltano il reporter sentenziare con tono grave: “La polizia costretta a intervenire per ristabilire l’ordine”. Oppure: “La polizia promette investigazioni”.
Lunedì sera una piccola manifestazione (come le tante che si stanno succedendo in questi giorni in tutto il Brasile) è partita dal quartiere di Bom Successo, nella periferia nord di Rio. Ancora non è chiaro cosa sia accaduto e le ricostruzioni ufficiali lasciano perplessi. La polizia afferma di essere intervenuta quando, arrivati all’altezza di Avenida Brasil (vicino alle comunità di Nova Holanda e Parque União, parti del complesso della Maré), ha avvistato alcune persone coinvolte in un arrastão (una sorta di assalto collettivo). Una volta fuggite queste verso l’entrata della favela, la polizia si è sentita giustificata a entrare e commettere qualsiasi tipo di atrocità. Così, quella che era cominciata come la repressione di una manifestazione è diventata una notte di sparatorie fino alle cinque di mattina. Chi si trovava dentro la favela non riusciva a uscire e chi era rimasto fuori non poteva entrare. Gli abitanti hanno denunciato invasioni di case, perquisizioni ingiustificate e aggressioni durante la notte.
Nelle favelas i proiettili non sono di gomma come in altre zone della città. L’Observatório de favelas, progetto sociale che ha sede nella Maré da più di dieci anni, racconta l’accaduto in un comunicato: il BOPE ha tagliato i cavi del telefono, lasciato parte della comunità senza luce durante le operazioni (strade completamente oscurate) e lanciato gas lacrimogeni nella zona. Scrivono: “Qual è il senso di tutto questo? Perché entrare nella favela se il ‘problema’ era nell’Avenida Brasil? Qual è il senso di queste morti che potevano essere evitate?”.
Nel pomeriggio del giorno seguente l’Observatorio ha invitato tutti a radunarsi all’entrata della favela (davanti alla sua sede) per mandare via la polizia (che è rimasta fino alla sera del giorno seguente), dare appoggio agli abitanti e denunciare l’accaduto. Contro quest’operazione è stato realizzato uno striscione: “A polícia que reprime na avenida é a mesma que mata na favela” (la polizia che reprime in strada è la stessa che uccide nella favela). Dopo un presidio all’entrata della favela è partito un piccolo corteo che in un clima di tensione si è diretto per le strade interne della comunità. Il corteo diventava via via più numeroso. Si cantava “Chega de massacre” (ne ho abbastanza di massacri) e “Fora Caveirão” (contro i blindati della polizia ancora presenti nelle strade). Martedì sera c’è stata una grande assemblea pubblica del movimento (all’aperto, nella piazza davanti all’entrata di una facoltà del centro). Erano presenti moltissime persone, e nessuno ha lasciato che passasse sotto silenzio l’accaduto.
In questi giorni si discute di molte questioni. La preoccupazione è legata ai tentativi di una parte della destra (più o meno organizzata, a seconda delle città) di strumentalizzare il movimento nutrendosi del malcontento nei confronti della politica. Una destra che, gridando alla corruzione contro il governo e dentro al PT, manifesta per i diritti sociali e cerca di fomentare lo spirito nazionalista della protesta, dimenticando i conflitti di classe interni alla società brasiliana. Così, soprattutto nelle ultime manifestazioni, in molte città si sono verificati episodi di violenza nei confronti di militanti e aggressioni omofobe nei luoghi dove la destra è ben organizzata, per esempio a Sao Paolo. In altre città, come a Rio, si sono registrati episodi di violenza contro la parte del corteo considerata di sinistra o aggressioni contro chi ha portato in manifestazione bandiere di movimenti sociali o sindacati.
In molti si chiedono se l’insofferenza alle forme classiche di rappresentanza partitica e quel cantare “senza partito, via le bandiere!” o “il popolo unito non ha bisogno di partito!” bastino per parlare di un movimento aperto a tutti e realmente “orizzontale”. Il movimento è ampio, organizzato tramite la rete, estremamente eterogeneo, ma è proprio quest’eterogeneità a rendere le cose molto complesse da decifrare.
La prossima grande data di mobilitazione è prevista al Maracanã per il 30 giugno, mentre sabato c’è stata un’altra grande manifestazione promossa dagli abitanti di una comunità (Horto) che, insieme con le altre favelas colpite dalle rimozioni, cominciano a organizzarsi. Le manifestazioni si moltiplicano nel centro e nelle periferie, nonostante i tentativi del governo di pacificare gli animi (è di pochi giorni fa la proposta di Dilma di destinare il cento per cento delle risorse proveniente dalle royalties a salute e istruzione), e altri già parlino di prime vittorie del movimento. (alessia di eugenio)