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21 Giugno 2013

Brasile, una rabbia che viene da lontano

Monitor
(disegno di cyop&kaf)

Rio de Janeiro, 17 giugno. Nelle ultime due settimane sono raddoppiati appuntamenti e assemblee che hanno visto ogni volta triplicato il numero dei partecipanti. Le università e le strade del centro si sono trasformate in spazi di organizzazione. Come avveniva negli anni Sessanta e Settanta, in piena dittatura militare, si è cercato di ridimensionare la portata del movimento accusandolo di essere formato solo da studenti di classe media bianca. Tuttavia, dopo gli ultimi giorni, senza negare la grande partecipazione studentesca, anche quest’operazione mediatica è diventata difficile per la rete Globo che monopolizza la comunicazione nel paese.

Ieri l’appuntamento era davanti alla Candelária, ore 17.00. Il corteo è partito puntualissimo, la manifestazione è andata avanti fino a tardi ed è terminata ballando intorno alle fiamme alte davanti al parlamento dello stato di Rio (Alerj). In tanti hanno appoggiato atti di estrema radicalità. Non sono state le realtà organizzate a tentare l’assedio del parlamento, anzi l’atto di ieri non era neanche previsto: doveva esserci un’assemblea plenaria rinviata all’ultimo momento dinanzi alla nuova data di mobilitazione nazionale stabilita su Facebook e al numero incredibile di adesioni cresciute in poche ore.

Quella che ormai è diventata famosa come “rivolta dell’aceto” (si utilizza l’aceto per proteggersi dai gas lacrimogeni usati dalla polizia) è nata contro l’aumento dei prezzi dei trasporti (a Rio è passato da 2,75 reais a 2,95 reais). Appena venti centesimi di differenza, ma dentro questi venti centesimi c’è tanto altro: un paese colpito dal rapidissimo aumento dei prezzi e dalle politiche degli ultimi anni. Mentre vengono fatti, per esempio, investimenti enormi in grandi opere (con guadagno di capitale immobiliare internazionale) e per la costruzioni di strutture adatte ad accogliere turisti (per la Coppa del mondo 2014 e le Olimpiadi 2016), intere famiglie vengono rimosse dalle loro case per essere rialloggiate (quando possibile) nell’estrema periferia della città. Le operazioni sono tutt’altro che pacifiche, come racconta un documentario realizzato da abitanti, attivisti e media indipendenti per certificare la continua violazione di diritti umani durante le operazioni di rimozione.

Al momento, nella città di Rio, il salario minimo si aggira intorno ai seicentosettantotto reais al mese, meno di trecento euro, mentre il costo della vita è salito alle stelle, diventando insostenibile. Il costo del trasporto pubblico è un efficace esempio: quasi un euro e cinquanta per un biglietto che, per un lavoratore che si muove nella città, significa spendere in trasporti la gran parte del proprio salario. C’è poi da aggiungere che le imprese dei trasporti, che sono private, finanziano la macchina elettorale e politica brasiliana. Il trasporto pubblico, in definitiva, è completamente mercificato. Ieri uno striscione recitava ironicamente: “Copa Fifa: trentatre miliardi, Olimpiadi: ventisei miliardi, corruzione: cinquanta miliardi, salario minimo: seicentosettantotto reais… e voi pensate ancora che tutto questo sia per 20 centesimi?”.

Educazione e salute, in questo scenario, restano le grandi tragedie del Brasile. I manifestanti non smettono di cantare: «O Rio acordou, o Brasil acordou» (Rio si è svegliata, il Brasile si è svegliato), o «Voglio denaro per salute ed educazione!». Chi ha vissuto in questo paese può capire quanto peso abbia questa situazione in termini di mantenimento delle disuguaglianze sociali. Diverso è per chi invece ci è arrivato in questa città e dal cancello di una università (in prevalenza bianca) osserva tutti i giorni bambini piccolissimi che vivono in strada (in prevalenza neri) giocare scalzi con le mamme addormentate a fianco.  Ma lo stereotipo vuole il brasiliano paziente, sorridente e allegro, sempre capace di dar um jeitinho (di cavarsela, di sistemare in qualche modo le cose). Ti ripetono che il paese ha vissuto una “transizione” dalla dittatura alla democrazia, ma senza avere una rivoluzione. La retorica comune, insomma, vuole che il popolo brasiliano non sia davvero abituato a lottare così che quanto sta succedendo in questi giorni è vissuto con uno stato di eccitazione notevole. Ainda dá tempo! Nunca é tarde! (Ancora c’è tempo, non è mai tardi!), recita un manifesto.

Ieri una compagna quasi piangendo mi ha detto: «Questa rabbia viene da molto lontano, accumulata da molto lontano». Su internet è stata fatta la proposta di non portare bandiere di partiti (chi non l’ha rispettata ha visto la bandiera diventare materiale combustibile). Qualcuno ha proposto di portare solo bandiere del Brasile,  e nonostante i mal di pancia di molti nel vedere sventolare la bandiera di “Ordem e progresso” è stato molto strano vedere gli stessi che quella bandiera la sventolavano non smettere di correre e rafforzare il fuoco. Qualcuno gridava: «Stato fascista, togliete queste bandiere!», ma in molti, senza smettere, rispondevano che «è per il nostro Brasile».

Il governatore dello stato di Rio de Janeiro, Sérgio Cabral, ha permesso di dotare la polizia di armi letali durante le manifestazioni e ci sono stati diversi feriti a causa di armi da fuoco. Il governo resta incapace di gestire la situazione (emblematico il silenzio del Partito dos trabalhadores) mentre per giovedì è prevista un’altra grande manifestazione. A fine serata, tra tanto entusiasmo, in molti nella piazza di Cinelândia hanno cominciato a organizzarsi.

C’è da dire che molto prima di questo “risveglio”, solo nell’ultimo anno, Rio è stata attraversata da tante piccole e grandi mobilitazioni: la lotta degli Indios contro la rimozione dell’Aldeia Maracanã, la resistenza popolare nella comunità di Manguinhos, la lotta degli abitanti della comunità della Providência, di Vila Autódromo e le ribellioni in molte comunità contro le violenze commesse dall’UPP (unità di polizia “pacificatrice”, quella presente nelle favelas). Poi le lotte dei professori delle scuole pubbliche e quelle contro l’omofobia, il machismo e il razzismo. Quello che sta accadendo in questi giorni – l’entusiasmo, la partecipazione, l’energia – sembra quasi dar voce al livello feroce di oppressione e violenza sofferte da troppo tempo: «Questa rabbia viene da molto lontano, accumulata da molto lontano». (alessia di eugenio)

Nelle ultime quarantotto ore la situazione si è fatta ancora più tesa.  La grande manifestazione di giovedì sera ha visto sfilare un milione di persone in tutte le principali città del paese. I numeri sono abbastanza incerti, ma si parla di trecentomila persone a Rio De Janeiro, nonostante lo stop da parte delle autorità ai provvedimenti di aumento del costo del trasporto pubblico. Oltre che a Rio, violenti scontri si sono verificati a Porto Alegre, Campinas, Salvador de Bahia e Brasilia, dove i manifestanti hanno assediato il Congresso prima e il Ministero degli esteri poi. Durante gli scontri vi è stato un uso massiccio da parte delle forze dell’ordine di lacrimogeni e proiettili di gomma. Si contano centinaia di feriti, e due persone sono morte: la prima vittima è un ragazzo di diciotto anni rimasto ucciso a Ribeirao Preto in circostanze poco chiare. Le ricostruzioni ufficiali raccontano dell’investimento da parte di un’auto durante il corteo. La seconda vittima a Belem, è stata colpita da un infarto durante gli scontri. Oggi ancora manifestazioni in quasi sessanta città. 

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