
Il 19 dicembre scorso una persona di origini marocchine, di cui non conosciamo il nome, è morta al Cpr di Restinco, a Brindisi. Sempre secondo le notizie che questura ed ente gestore hanno dato alla stampa locale, l’uomo è morto intossicato durante una protesta scoppiata all’interno del centro nel cuore della notte. La dinamica non è chiara, ma si sa che diversi materassi erano stati dati alle fiamme nel tentativo di manifestare tutta l’insofferenza verso questa forma di reclusione. Oltre alla persona morta, almeno un’altra è rimasta ferita.
Da febbraio 2020, quando è scoppiata la sindemia da Covid-19 e i Cpr sono diventati dei luoghi ancor più impenetrabili di quanto già non fossero, questa è l’ottava morte di detenzione. Otto persone, in poco meno di tre anni. Aymen Mekni, morto nel Cpr di Caltanissetta per non essere stato curato; Vakhtang Enukidze e Orgest Turia, morti nel Cpr di Gradisca d’Isonzo dopo violenze poliziesche il primo e a seguito di una overdose da farmaci il secondo; Wissem Ben Abdel Latif, morto in contenzione all’ospedale San Camillo di Roma, dove era stato portato dal Cpr di Ponte Galeria; Moussa Balde, morto suicida nel Cpr di Torino, dove era finito dopo essere stato vittima di un brutale pestaggio a Ventimiglia; Ezzedine Anani e Arshad Jahangir, portati al suicidio sempre a Gradisca.
A prescindere dalla sua posizione geografica, dalla quantità di informazioni che gruppi e reti solidali possono raccogliere e divulgare su cosa succede dietro queste spesse mura e alte grate, dalle azioni di solidarietà attiva, il Cpr continua a uccidere. Secondo i dati pubblicati nel recente libro Dietro le mura. Abusi, violenze e diritti negati, redatto da LasciateCIEntrare, questa è la quarantatreesima morte nei Cpr dalla loro apertura nel 1998. La morte in questi luoghi è ampiamente normalizzata da autorità, stampa e opinione pubblica. Eppure, alcuni degli elementi che negli scorsi giorni sono emersi delineano un quadro inquietante. Pochi giorni dopo la stringata notizia della morte dell’uomo, agenzie di stampa e quotidiani locali hanno dato conto di come lo stato ha risposto alla protesta. Due detenuti, uno georgiano e uno tunisino, sono stati arrestati e portati nel carcere di Brindisi con l’accusa di aver causato la morte dell’uomo marocchino dando fuoco ai materassi. Al reato di danneggiamento si è aggiunto l’omicidio colposo. Altri tre detenuti sono stati denunciati: uno con l’accusa di aver appiccato per primo il fuoco all’interno del centro; un altro per resistenza e un terzo per lancio di oggetti contro i poliziotti. Tutti gli altri detenuti, riporta la stampa, sono stati trasferiti in altri Cpr sul territorio nazionale. Quello che si intuisce, ma che non è per ora confermabile, è che il Cpr sia stato svuotato perché i danneggiamenti sono stati ingenti e vada quindi verso una (temporanea) chiusura. Quello che si evince, è che lo stato ha imputato la morte di un recluso alle azioni dei suoi compagni e non alle condizioni in cui si vive reclusi all’interno della struttura, di cui è lo stato a essere responsabile.
Quanto successo a Restinco conferma quanto il governo dei corpi delle persone detenute sia basato su un’inversione di quello che dovrebbe essere il principio di legittima difesa. Il Cpr produce soggetti che non possono difendersi e la cui r-esistenza è indifendibile. Gli accusati sono coloro che hanno cercato di agire nel tentativo di difendersi dalla condizione in cui si trovavano, reclusi in un Cpr per chissà quale motivo e per chissà quanto tempo, abbandonati alla routine di questi centri fatta di psicofarmaci, cibi scaduti, condizioni igieniche e ambientali ostili, assenza di cure mediche e violenze poliziesche. Il responsabile della morte di quest’uomo, così come dei quarantadue precedenti, è il Cpr. Ovvero le leggi che l’hanno istituito, allargato, ridefinito nel corso degli anni; il sistema politico, con alcuni nomi in particolare, che da destra a sinistra si sono fatti portavoce delle campagne xenofobe che hanno creato il clima discorsivo che giustifica l’esistenza di questi luoghi; gli enti gestori dei centri; le forze dell’ordine. Tutti questi soggetti, i legislatori, i politici, i manager e i dirigenti delle cooperative, gli operatori e il personale sanitario, i poliziotti e carabinieri, seppure a livelli e in modi diversi, sono riconosciuti dallo stato come titolari legittimi di un diritto di autodifesa. Se venissero aggrediti, o anche solo insultati, da chi nei Cpr ci è rinchiuso, se venissero criticati oppure ostacolati dalle persone solidali, questi attori si troverebbero legittimati a chiedere protezione e riparazione. Chi si ritrova reclusa/o, no. Quello che resta sono gesti di auto-difesa in molti casi estremi, perché mettono radicalmente in pericolo la vita stessa di chi li attua: dagli atti di violenza contro di sé, ai tentativi di evasione, fino alla pratica, molto comune, di bruciare i materassi. Sono questi gesti di difesa ultima della propria vita a essere criminalizzati.
Non sappiamo come siano andate le cose all’interno del centro, ma sappiamo che due persone sono state arrestate e tre denunciate per aver provato a ribellarsi contro i pericoli quotidiani della reclusione e la minaccia della deportazione. La criminalizzazione nei confronti delle persone migranti si interseca anche in questo caso a un’altra forma di criminalizzazione, altrettanto comune in Italia, quella del dissenso, sia esso organizzato o spontaneo.
E così, per due persone il percorso è stato da un luogo di reclusione a un altro, dal Cpr al carcere. Anche questo è un elemento importante. Il Cpr è infatti praticamente sempre, e da qualsiasi posizionamento, narrato come qualcosa di slegato dai meccanismi di regolazione delle società europee contemporanee. Un luogo d’eccezione. Eppure, questo luogo è parte integrante delle istituzioni statali, non un’anomalia della democrazia da sanare. In molte occasioni il Cpr funge da surrogato al carcere. Durante il primo lockdown, per esempio, si è visto come le uniche persone rimaste all’interno dei Cpr fossero quelle provenienti dalle carceri e quelle che erano state arrestate in strada perché senza dimora. Ma il Cpr ha da sempre una funzione di “gestione” di marginali e pericolosi, senza documenti, e in questo senso ha sempre operato all’interno del continuum detentivo. In un incontro avvenuto in novembre al Csoa Gabrio a Torino su confini e frontiere, Giulia Fabini, ricercatrice in criminologia critica, riportava che il maggior numero di detenuti stranieri nelle carceri italiane sono marocchini. Proprio come l’uomo morto a Brindisi. E così non c’è da sorprendersi della provenienza geografica dei detenuti, né del fatto che in un attimo le persone possano fare avanti e indietro tra le due istituzioni. Nelle carceri, nell’ultimo anno sono morte settantanove persone (di cui cinque donne). L’aspettativa di vita di una persona diminuisce nel momento stesso in cui varca le soglie di queste istituzioni totali. Eppure, nonostante le morti, i Cpr continuano la loro espansione. Come riporta Luca Rondi su Altreconomia, il governo Meloni nella finanziaria ha stanziato oltre quaranta milioni da investire nei centri di detenzione per i prossimi tre anni. Una scelta simbolica ancora più che materiale, che fa il paio con l’ennesima riproposizione nel dibattito pubblico dell’apertura di un nuovo Cpr in Toscana, dove da anni gli amministratori locali vorrebbero un centro per poter meglio gestire la sempre maggiore presenza straniera nella regione. È un discorso che si riapre ciclicamente, e che richiede una mobilitazione e un monitoraggio costanti. E così, più di quaranta associazioni locali hanno dichiarato di opporsi all’apertura del centro. L’opposizione al Cpr in Toscana è stata centrale anche durante la manifestazione antirazzista “Sconfiniamo” tenutasi a Milano il 18 dicembre scorso, organizzata dalla rete Mai più Lager – No ai Cpr. Dalla riapertura del Cpr di Milano, l’intensa attività di monitoraggio e supporto fatta dalla rete ha permesso di denunciare molti episodi di violenza e abbandono all’interno del centro, facendo emergere quanto queste strutture siano perfettamente inserite nelle logiche di gestione socio-economica attuale; non solo il ruolo dei Cpr all’interno del regime di frontiera, ma anche la loro connessione con il carcere e la centralità economica per il sistema produttivo e di welfare.
Gli stessi temi e discorsi sono emersi in altri contesti importanti. In varie piazze e occasioni è stato portato il tema della violenza psichiatrica nei Cpr, soprattutto in relazione alla morte di Wissem, dopo la quale si è costituito il Comitato verità e giustizia per Wissem Abdel Ben Latif, per chiedere che venga fatta chiarezza sulle cause delle morte del giovane. Un comitato che ha avuto una grande eco anche in Tunisia, paese di origine di Wissem.
Giustizia, un termine ambiguo quando si parla di migrazioni e Cpr, ma che è quella che si sta cercando anche a Imperia. Lì, è iniziato il processo nei confronti dei tre uomini accusati del pestaggio ai danni di Moussa Balde, per i quali il pubblico ministero ha chiesto due anni e otto mesi riconoscendo la gravità dei fatti. Fuori dal Tribunale c’era un nutrito presidio in sostegno della famiglia di Moussa. Per il processo è arrivato dalla Guinea-Bissau anche il fratello, Thierno, che tra novembre e dicembre ha girato il nord Italia per raccontare la lotta che la sua famiglia sta portando avanti dall’Africa, e in Africa, per ottenere verità e giustizia per suo fratello. (emi e zoe)