Bruxelles, 8 ottobre. Davanti stazione della metro c’è un nugolo di telecamere, microfoni, registratori e cuffie: giornalisti di mezza Europa aspettano l’arrivo delle marce degli indignados/indignés, previsto oggi per le 18.00. Dopo meno di un’ora, un’ottantina di persone arrivano sulla strada che conduce al parco. Gli altri attivisti, arrivati qui per accoglierli, abbandonano di colpo il piazzale dove stavano rilasciando le prime interviste per correre incontro ai camminatori arrivati da Parigi, Madrid, Barcellona e Tolosa. Il clima di entusiasmo stride con il cielo plumbeo che sovrasta la città.
Si fa subito un’assemblea nel parco, per decidere se restarci tutta la notte o dormire nell’edificio universitario dismesso che, dopo una trattativa con le istituzioni, il movimento belga ha ottenuto per tutta la settimana seguente. Sono in molti a voler restare nel parco, soprattutto gli spagnoli, per il forte valore simbolico che ha assunto, per loro, l’occupazione di piazze e spazi pubblici. Iniziano a montare le tende, mentre l’assemblea generale si protrae oltre le dieci, orario limite che la questura ha dato per lasciare spontaneamente la piazza. La reazione degli indigné(e)s/indignados, quando la polizia si schiera in assetto antisommossa, non può che sorprendere.
C’è chi canta la sigla di guerre stellari, ironizzando sull’aspetto minaccioso della polizia belga, e chi fa un girotondo intorno al cordone. Una banda inizia a suonare jazz manouche, e in un batter d’occhio il cordone di polizia si ritrova incastrato nel mezzo di una danza allegra e surreale. Poco dopo aver lasciato il parco insieme a una cinquantina di attivisti per raggiungere l’università, veniamo a sapere che hanno fermato quarantotto persone, in gran parte spagnoli, ma non solo. Verranno all’assemblea la mattina seguente, dopo aver passato dodici ore sul pavimento del commissariato.
E’ difficile dire da dove gli spagnoli tirino fuori l’energia che li contraddistingue anche qui, nei giorni dell’”Agora Brussels”, dopo mesi di cammino. Theo, cinquant’anni, di Barcellona, non dorme da due giorni. Lo si trova continuamente in giro: sistema l’info point e un secondo dopo rilascia un’intervista, nel frattempo aiuta a fronteggiare i mille problemi dell’occupazione, dai ladri ai guasti nei bagni, dalle risse alle battaglie di estintori che, ogni tanto, hanno vivacizzato l’atmosfera già frizzante della struttura della Hogeschool – Universiteit Bruxelles (HUB), il quartier generale del movimento.
«Ci sono centinaia di milioni di europei in ginocchio, e bisogna approfittare di questo momento per fare la rivoluzione, e far cadere questo sistema di finanzieri. È questo il momento di rifondare il sistema. Io lavoro ancora, ma mi sono messo in vacanza per i grandi eventi: l’Agorà Paris di questo settembre, ora Bruxelles e poi la Grecia, l’anno prossimo, Atene e Itaca, dove terminerà la prossima marcia. Da Barcellona e da Madrid abbiamo camminato per trenta chilometri al giorno, con una camionetta che raccoglieva beni e donazioni nelle piazze dei paesi dove passava. In ogni paese che attraversavamo tenevamo un’assemblea con gli abitanti, e raccoglievamo quello che poteva servire a noi e non serviva più a loro».
Tra i partecipanti alla marcia, non sono tutti entusiasti come Theo. Secondo alcuni, l’estrema apertura, generosità e tolleranza delle marce è diventata in breve tempo un’attrazione irresistibile per quanti non avevano di meglio da fare che camminare senza sapere esattamente perché e scroccare il cibo delle provviste. Nonostante quest’inconveniente, la ricchezza accumulata dalle marce è incredibile, e quello che più sorprende è che i soldi non circolino da nessuna parte. La mensa funziona dalle sette del mattino alle due di notte, servendo gratis tre pasti al giorno e bevande calde e fredde. Nella stessa sala della mensa, è stato allestito un free shop di abiti usati, dove chiunque può prendere le scarpe e i capi d’abbigliamento di cui ha bisogno.
L’edificio dell’HUB è un labirinto. Una fitta rete di corridoi e scale attraversa i sei piani della struttura e, dall’interrato, che ospita la mensa e l’auditorium, al quinto piano, un affollato media center, non c’è una stanza vuota. Molte servono da dormitorio per chi viene da fuori, altre sono riservate a gruppi di lavoro e commissioni, altre ancora servono per gli incontri e le assemblee. La struttura è un esperimento fallito di architettura moderna: il piano della biblioteca rischiava di crollare sotto il peso dei libri, per cui l’intero edificio era stato abbandonato. Ora è popolato ventiquattro ore al giorno da centinaia di persone.
Oltre al vivace calendario di incontri e iniziative, che scandisce le giornate che ci avvicinano al 15, l’aspetto interessante di quest’agorà è la grande diversità di lingue, storie, esperienze che qui si incontrano e si confrontano, spesso per la prima volta. Missy, trentaquattro anni, di Washington, ha attraversato l’oceano per venire fin qui: «Dal primo giorno sono stata parte dell’occupazione di Freedom Plaza (Washington D.C.). Ora ci sono centinaia di persone accampate lì, e centinaia di più verranno oggi, ci sono un sacco di azioni e iniziative ogni giorno. Ho preso parte alla Freedom Flotilla quest’estate, sulla nave americana per Gaza, e la nostra Flotilla è stata trattenuta, il governo greco non ci consentiva di partire, così stavamo ad Atene, lavorando per il rilascio delle nostre navi, per andare a Gaza. Alcuni di noi hanno passato un po’ di tempo a piazza Syntagma, che era occupata. È così che sono stata coinvolta nel movimento degli indignati, ma sono un’attivista dalla prima volta che ho visitato la Palestina, nel 2005».
Guillaume, 18 anni, di Louvain-La-Nueve (Belgio), ha un diploma di cuoco, ma ha lasciato il lavoro perchè stanco di farsi sfruttare. Ora vive per strada e da amici. «Il movimento belga non è mai contro. I belgi non hanno mai problemi, neanche con un governo che non hanno scelto, vale a dire con una dittatura… Sono dei rivoluzionari da divano! Quest’occupazione è stata molto interessante, ho potuto discutere delle mie opinioni politiche. La lotta per me si può fare anche da soli, si fa un po’ tutti i giorni, vivo per strada e non consumo nei negozi, comincio dalle piccole cose, credo che tutti potrebbero coltivarsi delle cose da mangiare. Credo che, più che distruggere il sistema, bisognerebbe costruirsene uno proprio».
Ad Amira, una regista polacca di 30 anni, chiedo di raccontarmi com’è il movimento nel suo paese: «Ho creato una pagina in polacco su Facebook mentre ero a Parigi, con la marcia del movimento. Non è stata la prima, ma è diventata abbastanza popolare perché ci si condividevano molte informazioni su cosa stava succedendo, su chi marciava e perché. A Varsavia, un gruppo di studenti dell’Università ha deciso di scrivere delle proposte per il governo. In breve tempo sono diventati riconoscibili, perché davano interviste alle tv e alla stampa dichiarando ogni volta il loro nome e cognome. Hanno avuto anche buone idee, ma non le hanno aperte al dibattito pubblico, né hanno provato ad attrarre masse, si sono chiusi nella loro cerchia, e ci tengono a farsi riconoscere. Penso che una caratteristica di questa mobilitazione internazionale sia avere moltissime facce diverse, e in questo il movimento polacco è diverso».
Kim Lee Quan, belga di origine vietnamita, è una delle menti del programma dell’Agorà. Di professione insegnante di scacchi, è attivo in varie associazioni. «Aiuto il movimento ad avere contatti con le associazioni, per esempio nella settimana dell’agorà ho organizzato con alcuni ricercatori quattro workshop su disoccupazione, diritto alla casa, privatizzazione dell’acqua e alternative al G20. Le assemblee è difficile organizzarle, soprattutto quando hai bisogno di una traduzione in inglese e una in spagnolo; ma il gruppo di dinamizzazione ha finora trovato delle buone soluzioni».
Il 15 ottobre, durante il percorso più lungo mai autorizzato per un corteo a Bruxelles, incontro anche Maroussa, 28 anni, mediatrice, che cammina avvolta in una bandiera della Grecia. «In tutto il mondo non vogliamo più che la gente sia obbligata a sottostare alle leggi del capitalismo, ma in Grecia sentiamo già l’impatto della crisi, e la situazione è tragica. La disoccupazione giovanile è al 45 %, la crescita dei suicidi è cresciuta del 40% in un anno. Ho tanti amici che vivono lì e non hanno lavoro e ora stanno andando via tutti. La Grecia è il primo paese danneggiato dai mercati, credo sia anche in qualche modo un paese-cavia, perché l’FMI ha sempre fatto certe schifezze solo in Africa, ed è la prima volta in Europa. Ma questo movimento è la faccia buona della globalizzazione, ci siamo resi conto che soffriamo degli stessi problemi, e ora possiamo comunicare molto più facilmente, anche grazie a Internet. Non credete che i Greci siano pigri. I greci lavorano un sacco, e vogliono un cambiamento. Abbiamo bisogno che tutti si sveglino!» (giulia beat)