C’è un graffito scolorito al Rione Traiano, su un muro che fa angolo tra lo Stradone e una delle sue tante perpendicolari. In parte oscurata da qualche manifesto, si può ancora leggere sui mattoni la domanda di cui l’ignoto writer si è fatto portavoce: Quo vadis?
“Dove stiamo andando?” è quello che ci si domanda per lunghi tratti durante la visione di Selfie, l’ultimo documentario di Agostino Ferrente girato al Rione Traiano e apprezzato di recente al festival di Berlino. Selfie parte da un presupposto stimolante: la consegna dello strumento cinematografico (nel caso specifico un telefono cellulare) a due adolescenti del rione, con l’intento di raccontare il rione stesso attraverso alcuni squarci di vita dei suoi abitanti. I due a(i)uto-registi di Ferrente sono Alessandro e Pietro, selezionati nel corso di alcuni provini, quando l’autore pugliese aveva immaginato di girare un film sulla vicenda della morte di Davide Bifolco. La scelta stilistica ha in effetti la forza di capovolgere i punti di vista, dando allo spettatore la possibilità non di guardare i protagonisti delle storie, ma di osservarli mentre le raccontano.
Ma dove va Selfie? È un film sul Rione Traiano? È un film sull’amicizia di due adolescenti? È un film che intende raccontare la vicenda di Davide Bifolco attraverso la descrizione del suo contesto? È un esercizio di stile? Probabilmente è tutto insieme, sebbene il suo autore non si assuma esplicitamente la responsabilità di una scelta. Non lo fa nei confronti del pubblico, che rapito dall’audacia di una visione capovolta, fatica a riconoscerne la direzione (intesa tanto come quo vadis? quanto come “orchestrazione”); e non lo fa nei confronti dei ragazzi, che sembrano convinti, nel corso delle riprese, di poter far valere il proprio punto di vista al momento del montaggio e della post-produzione.
Che durante le riprese i ragazzi non avessero idea della direzione che avrebbe preso la “loro” storia, risulta evidente nell’ultima scena, quando uno dei due decide di fare un passo indietro, convinto che la differenza di vedute con il suo compagno, rispetto al lavoro che si sta portando avanti, sia insormontabile. Il che potrebbe anche essere il frutto di un’encomiabile scelta di fiducia verso i due giovani autori, messi a confronto con una materia assai spinosa (il racconto della realtà, il racconto della città) che crea difficoltà a colleghi assai più titolati e con ben altri strumenti. Ma la direzione, in realtà, è saldamente nelle mani del regista, che promuove in fase di ripresa, e inserisce accuratamente in quella successiva, una serie di elementi necessari a dare una linea precisa e personale al (suo) film.
L’assenza solo apparente di Ferrente dalle operazioni di costruzione del film (fatta eccezione per una didascalica voce fuori campo all’inizio), le dichiarazioni d’intenti sugli obiettivi del documentario attraverso le parole dei ragazzi («un film deve raccontare le cose belle o quelle brutte?»), le precise scelte musicali, non solo rendono Selfie altro rispetto a ciò per cui è stato propagandato, ovvero una “auto-inchiesta sociale”, ma per di più mortificano il ruolo dei presunti autori, riducendoli a esecutori di una macchina produttiva (basta guardare la densità dei titoli di coda) all’interno della quale il loro peso è minore di quanto loro stessi percepiscano.
In molti hanno messo a confronto, per opposizione, il film di Ferrente con La paranza dei bambini, ritenendo quest’ultimo una pellicola para-televisiva, a dispetto di Selfie, encomiabile invece per la capacità di rappresentare il reale. Se il film di Giovannesi è una vendibile messa in scena della sbandata gioventù napoletana, che mette le pistole di Gomorra in mano ai personaggi dei video di Liberato, è anche vero che l’auto-rappresentazione di Alessandro e Pietro in Selfie, asseconda inevitabilmente gli intenti, dichiarati, del regista. E così ancora una volta è “buoni contro cattivi”, in una struttura dove gli adolescenti-operatori finiscono per specchiare nei loro cellulari le intenzioni del regista, ostinatamente deciso a mostrare “le cose belle” di un quartiere come il Rione Traiano. E invece, come nella Paranza, emergono quelli che avrebbero potuto essere cattivi e diventano buoni perché «spacciare non è cosa mia», quelli che avrebbero potuto essere buoni e diventano cattivi per vendicarsi del pizzo che le madri pagano alla camorra, quelli che nascono cattivi perché i padri e gli zii lo erano, quelli che nascono buoni perché hanno un genitore che li manda a fare i garzoni a quindici anni… Non è questa la complessità sociale del Rione Traiano come di nessun altro quartiere, ma solo una narrazione di superficie che rende un film potenzialmente dirompente, politicamente innocuo. Non è nemmeno lì, che va, Selfie, in fin dei conti: non racconta la storia di Davide Bifolco né le contraddizioni e i fragili equilibri del quartiere, non racconta l’assenza di politica né l’isolamento sociale, l’abbandono delle istituzioni. L’opaco sfondo, al contrario, non aiuta a collocare le storie dei personaggi (non solo i due protagonisti) in una prospettiva locale-globale, ma le rende poco più che un affresco di povertà, nei confronti del quale il sentimento più immediato e inoffensivo provocato nello spettatore è la pietà (cosa che in fondo era il limite principale anche del precedente lavoro di Ferrente, Le cose belle). (riccardo rosa)