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detenzioni
23 Gennaio 2025

Carcere, la privazione dell’affettività e la deumanizzazione del detenuto

Rossella Faella
(disegno di ginevra naviglio)

Quello dell’affettività in carcere è un tema cruciale e ampio, che ingloba questioni come lo spazio dato ai legami personali dentro le mura degli istituti, le pratiche che sostengono o negano queste relazioni, le dinamiche e i rapporti di potere che le modellano. Non è solo una questione di diritti da rivendicare, ma di comprendere come questo diritto costituisca un terreno complesso e significativo, un intreccio di dinamiche di esclusione, pratiche di controllo e indisponibilità all’ascolto di istanze di semplice umanità.

L’espansione in termini quantitativi e l’estensione delle funzioni del carcere, lo configura ogni giorno di più come luogo di marginalità, spazio in cui vengono sospesi non solo i corpi, ma anche le relazioni: i detenuti vivono in un sistema finalizzato ad allontanare se non a recidere i legami affettivi, sfilacciati, ridotti – come spiega Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia – a pochi momenti privi di privacy, “che spesso non bastano neppure per mantenere vivo un rapporto”.

Già nel 2012, con la sentenza numero 301, la Corte Costituzionale aveva sottolineato l’importanza di riconoscere ai detenuti il diritto all’affettività, chiedendo al governo di intervenire per regolare questa materia. La Corte affermava che negare del tutto l’intimità e i legami affettivi costituiva una violazione della dignità umana, in contrasto quindi con la funzione costituzionale della pena.

Da allora non ci sono stati interventi legislativi in questa direzione, così dodici anni dopo, nel 2024, la Corte ha fatto un ulteriore passo avanti, dichiarando incostituzionale l’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario, che impediva ai detenuti di avere colloqui intimi con il coniuge, il partner dell’unione civile o la persona convivente senza la sorveglianza del personale di custodia. Ero in carcere, quella mattina del gennaio di un anno fa, quando la notizia fece ingresso nel femminile di Pozzuoli. Alcune detenute immaginarono, insieme a me e alle altre operatrici di Antigone presenti, quel momento tanto sognato: quella sentenza non rappresentava solo un diritto riconosciuto, ma una flebile speranza di recuperare un pezzetto di umanità che credevano perduto. Per altre, invece, l’idea di non essere controllate a vista dal personale penitenziario era un’eventualità remota, una possibilità mai presa in considerazione, accolta con una certa diffidenza e scetticismo.

VUOTO LEGISLATIVO E DISCREZIONALITÀ
La decisione della Corte si basa sui principi fondamentali della Costituzione, richiamando l’articolo 3 (quello sull’uguaglianza davanti alla legge), l’articolo 27 (sulla funzione della pena) e l’articolo 117, legato alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Consulta ha sottolineato come la privazione del diritto all’affettività non sia giustificabile, e contribuisca a rendere il carcere un luogo ancora più desocializzante e deumanizzante: la negazione di una dimensione così essenziale non solo aliena gli individui, ma taglia ogni filo con la società, spingendoli a vivere in una realtà priva di legami autentici. Va sottolineato, in questo senso, che l’Italia resta agli ultimi posti in Europa sul sostegno ai legami affettivi dei detenuti (paesi come Francia, Olanda e Romania offrono già da tempo possibilità di incontri intimi in contesti riservati). Un tabù che sembra avere radici anche più resistenti degli interventi della Consulta: può capitare, per esempio, che un magistrato di sorveglianza – è successo a Torino – dichiari inammissibile il reclamo di un detenuto del carcere di Asti che aveva richiesto di poter effettuare un colloquio intimo con sua moglie, sterilizzando l’orientamento della Corte Costituzionale e sollevando dubbi sulla capacità del sistema giuridico di tradurre i principi sanciti dalla Consulta in diritti concretamente esigibili (a risolvere la situazione è dovuta intervenire la Corte di Cassazione, ribadendo che il diritto ai colloqui intimi non può essere ridotto a “una semplice aspettativa”: questo tipo di relazione rappresenta infatti una legittima espressione del diritto all’affettività e alla cura dei legami familiari, limitabili solo per ragioni di sicurezza, ordine o esigenze giudiziarie).

Considerando il livello di sovraffollamento delle carceri, il quadro è anche quantitativamente critico: ci sono in Italia oltre sessantamila persone detenute, a cui vanno aggiunti i rispettivi partner, per le cui affettività e sessualità sembra non esserci né spazio né interesse. Parliamo, è bene ribadirlo a oltranza, di una dimensione essenziale, capace di caratterizzare (basta citare anche solo l’enciclopedia Treccani) “le tendenze e le reazioni psichiche di un individuo”. La repressione totale di questa dimensione, in un contesto come quello carcerario, risulta totale. Michele Esposito, in una sua analisi sul numero zero di Ristretti Orizzonti, ha osservato come la soppressione dell’espressione affettiva e sessuale dell’individuo non solo ne aggravi le condizioni fisiche e psichiche, ma danneggi anche la sua vita familiare e sociale: “Di tutti gli aspetti volutamente negativi che il carcere infligge, questo è certamente il peggiore e, alla lunga, il più deleterio per la psiche di una persona, perché distrugge la vita affettiva del detenuto e delle persone a lui legate, e quindi anche l’istituzione della famiglia”. La dimensione dell’affettività non investe infatti solo la vita di coppia e l’aspetto sessuale: riguarda anche le relazioni tra il detenuto o la detenuta con i propri figli, e la tutela della bigenitorialità, intesa come il diritto del figlio di conservare un rapporto equilibrato e continuativo sia con la figura paterna che con quella materna, ricevendo cura, educazione e istruzione da entrambe.

Ancora Favero ha spiegato come l’affettività comprenda anche momenti di condivisione e quotidianità essenziali per il benessere psicologico di un detenuto e per mantenere i legami familiari, mostrando come anche la semplice possibilità di pranzare con i propri familiari, in quanto semplice atto di condivisione, possa rappresentare un momento di contatto umano essenziale per salvaguardare un certo grado di benessere psicologico nei detenuti, e aiutare a mantenere saldi i legami affettivi anche in un contesto di privazione della libertà.

A dispetto delle aperture legislative, tuttavia, la realizzazione del diritto all’affettività in carcere resta un obiettivo ambizioso e lontano. L’assenza di una normativa organica che disciplini le modalità di esercizio di questo diritto continua a lasciare spazio a interpretazioni restrittive e discrezionali, subordinando i diritti fondamentali a logiche premiali. Al momento, l’unica possibilità per i detenuti di vivere la propria intimità durante la detenzione è legata ai permessi premio, che, sebbene non concepiti per soddisfare tale esigenza, finiscono per assolvere a tale funzione (un meccanismo che naturalmente esclude una grande parte della popolazione carceraria, perpetuando una disparità di trattamento che comprime ulteriormente la dignità umana).

Occorre invece un intervento legislativo chiaro e coraggioso che superi le logiche di concessione condizionata e riconosca questo diritto come un elemento da tutelare a ogni costo durante l’esecuzione della pena, integrandolo come principio all’interno del sistema penitenziario italiano. La privazione sistematica di legami affettivi e intimi non è solo contraria alla Costituzione, ma è anche una delle pratiche più violente di questo sistema, capace di palesare la vera funzione del carcere, dispositivo di controllo le cui armi principali sono marginalizzazione e deumanizzazione dell’individuo. (rossella faella)

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