
Le proteste esplose nelle carceri italiane nella primavera del 2020 avrebbero potuto rappresentare un punto di rottura rispetto alla stasi in cui è bloccato l’universo penitenziario. Peccato che, fatta eccezione per un rumoroso clamore iniziale, nulla sembra essere cambiato.
Le poche innovazioni introdotte (possibilità di effettuare videochiamate, ipotesi di un termine massimo delle licenze premio straordinarie per i detenuti in regime di semilibertà, permessi premio in deroga al regime ordinario, detenzione domiciliare “eccezionale”) sono state prorogate fino al prossimo 31 marzo, ma non possono in alcun modo rappresentare una soluzione organica per problemi annosi. Come in altre occasioni, anzi, le istanze di cambiamento, la necessità di ammodernare i sistemi istituzionali, le evidenti fratture con lo status quo non hanno fatto altro che cristallizzarlo e rinforzarlo: le preoccupazioni relative alla diffusione del Covid 19, il sovraffollamento, le difficoltà della magistratura di sorveglianza nel gestire le richieste e le ipotizzate soluzioni, non sono riusciti a costituire una base per uno slancio in avanti. Anzi, sin da subito si è tentato di far credere che le rivolte fossero state causate dalla ingestibilità dei detenuti, dalle troppe occasioni di socialità, da ordini provenienti dagli apparati camorristici, senza essere in grado di leggere cause ed effetti del presente.
Il tentativo di mettere la polvere sotto il tappeto è stato evidente. Se da un lato, una volta accantonata l’iniziale e discutibile presa di posizione dell’allora ministro Bonafede, si è scelto di condannare i comportamenti degli agenti intervenuti non certo solo per sedare le rivolte, dall’altro, sotto traccia, si sono fatti strada provvedimenti che andavano in ben altra direzione.
Il riferimento è alla circolare del Dap denominata “Bozza circolare del circuito Media Sicurezza – Direttive per il rilancio del regime penitenziario e del trattamento penitenziario”, elaborata con l’obiettivo di intervenire su un’enorme parte del corpo detentivo, dato che la maggioranza della popolazione detenuta è reclusa proprio nei circuiti di media sicurezza.
Attualmente l’organizzazione degli istituti penitenziari si caratterizza per la presenza di un doppio regime: aperto, riservato a quei pochi ristretti nelle sezioni a “custodia attenuata”, e chiuso, previsto per le persone detenute nelle sezioni di “alta sicurezza”. Se si escludono le poche centinaia di persone nelle sezioni a custodia attenuata e qualche migliaio di persone ristrette nelle sezioni di alta sicurezza, si possono calcolare, secondo Antigone, circa trentacinquemila detenuti che sarebbero interessati dalle innovazioni della circolare, il cui principale intervento riguarda la distinzione tra le sezioni ordinarie e le cosiddette sezioni “a trattamento intensificato”.
Nelle sezioni ordinarie, secondo la bozza, andranno collocati i detenuti ai quali non sarà più applicata la sorveglianza dinamica, introdotta con una circolare del Dap del 14 luglio 2013. È evidente come questa modifica sia finalizzata a riproporre una modalità di reclusione esclusivamente punitiva, dove la vita detentiva è caratterizzata dall’apertura delle stanze esclusivamente per “assicurare” le ore di socialità, la permanenza all’aria aperta, le attività trattamentali. Chi viene ritenuto inidoneo a ricevere un trattamento “avanzato” sarà dunque obbligato a restare in cella, nella maggioranza delle situazioni tutto il giorno, senza potersi spostare; una possibilità che incide fortemente sul vivere quotidiano della popolazione detenuta, fondata su scelte dell’amministrazione del tutto discrezionali e senza alcuna possibilità di intervento da parte della magistratura di sorveglianza.
La circolare, se approvata, introdurrebbe – come accennato in precedenza – apposite sezioni, nelle quali assegnare i detenuti che assumono comportamenti tali da richiedere “particolari cautele, anche per la tutela dei compagni da possibili aggressioni o sopraffazioni”. È con questa mossa che la circolare scopre le sue carte: stabilisce, infatti, la necessità di prevedere in ogni istituto sezioni ad hoc, individuate valutando il numero di detenuti che, per tipo di comportamento e necessità di tutela della comunità penitenziaria, si riterrà necessario assegnarvi; all’interno di queste sezioni è prevista una chiusura addirittura maggiore rispetto al “nuovo” modello detentivo ordinario: a essere garantito sarebbe esclusivamente il tempo di permanenza all’aperto previsto dai limiti di legge, e cioè con durata non inferiore a quattro ore al giorno, riducibili a due “per giustificati motivi”.
Sul contenuto della circolare si sono espressi i sempre attivi sindacati della polizia penitenziaria: il Sappe, evidentemente non soddisfatto della stretta securitaria, ha ritenuto necessaria un’integrazione alla bozza, prevedendo l’assegnazione automatica alle sezioni chiuse per i detenuti che abbiano compiuto anche in una sola occasione delle aggressioni al personale; secondo il sindacato sarebbe necessario, inoltre, senza alcun tipo di valutario, che il detenuto passi per una sezione ordinaria prima di poter accedere a una a trattamento avanzato, in un percorso che dovrebbe quindi durare almeno un anno.
Se ancora non fosse chiara la sua posizione su sorveglianza dinamica e regime aperto, il sindacato autonomo di polizia sottolinea in maniera sprezzante che “in occasione delle rivolte di marzo 2020, in oltre dieci istituti anche i detenuti ristretti nel circuito alta sicurezza vivevano in regime di stanze aperte”. Il significato è chiaro: sono gli spazi di socialità dati ai detenuti, e non le chiusure a oltranza, o le condizioni di sovraffollamento, o quelle igienico-sanitarie, ad aumentare il rischio che si verifichino episodi di violenza. Eppure, al netto delle sollevazioni da parte dei detenuti, gli episodi più gravi accaduti tra marzo e aprile 2020 – questo ci si guarda bene dal sottolinearlo – sono avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e in quello di Modena, quando le forze di polizia hanno messo in atto azioni tra le più gravi mai verificatesi nelle carceri nella storia del nostro paese.
Va sottolineato, infine, che, parallelamente all’iter che sta seguendo la circolare, il ministro ha nominato una commissione “per l’innovazione del sistema penitenziario” che si è impegnata a immaginare, vent’anni dopo l’ultima riforma, e con delle legittime incertezze in termini di una sua possibile attuazione solo “parziale”, una serie di interventi in grado di impattare sull’emergenza carceraria.
Un doppio binario che potrebbe finire per essere il classico colpo dato al cerchio e alla botte, se non fosse che questa ambiguità rischia di lasciare irrisolte delicatissime questioni dalle quali dipende il vissuto di migliaia di persone. (gaia tessitore)