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30 Dicembre 2024

Caserta ai suoi antieroi – Capitolo VI

Pome
(disegno di mario trudu, da: la mia iliade)

A Stefano l’avevano trovato nel bagno dei giardini della Reggia. Erano stati i custodi a chiamare l’ambulanza. Lui ascoltava il punk. Noi no. Noi in quei giorni a cavallo tra i Novanta e i Duemila, sotto ai portici del Banco di Napoli o tra le mura dell’ex Macello occupato di via Laviano, ascoltavamo sempre lo stesso pezzo, per precisare un’intuizione che a poco a poco diventava consapevolezza. Come chi gira intorno al problema senza riuscire a risolverlo, noi cercavamo la risposta in quelle rime senza afferrarla subito, e allora riavvolgevamo il nastro finché non avremmo messo a fuoco i nostri pensieri.

Occorreva rifletterci, perché quel pezzo metteva in contrapposizione la rivolta esistenziale e una scelta tragica. Raccontava di un vinto che aveva l’odio per i ricchi e per le macchine dei poliziotti. Un eroinomane con la fame e il freddo negli occhi. Non era la voce della capitale romana politicamente ineccepibile a parlarci, né quella del nord, che pure ci esaltava quando diceva di essere straniera nella sua nazione. Era la voce di un cafone, e noi ci identificavamo in quella voce, avevamo bisogno di sentirla mentre descriveva lo scenario desolante dei paesani, con quelle strade deserte i lunedì sera di febbraio.

Ciò che ci attirava di quel brano era innanzitutto la vicenda, perché ci parlava come i primi film di Spike Lee noleggiati alla videoteca di via Ferrarecce e che guardavamo a casa di Tonino – Jungle Fever, con Samuel Jackson che fa la parte del tossico, Clockers, che apriva con i Croocklyn Dodgers, Fa’ la cosa giusta, Mo’ Better Blues… Leggere allora non era tra le priorità dell’esistenza. A casa s’imparava l’arte dell’aggressività; non si parlava ma si urlava, al massimo c’era qualche enciclopedia impolverata sullo scaffale nel tinello. Al di fuori dei libri di scuola c’era solo il rap, la breakdance, il pallone e tanti film. Era molto più incisiva la scena di quel film ambientato nel Bronx, con il padre che dice al figlio che non c’è cosa più triste nella vita di un talento sprecato, di qualsiasi saggio sulla condizione post-moderna. I libri dei miei fratelli erano reliquie da custodire gelosamente, oggetti che destavano timore e attrazione allo stesso tempo. Guai a chi li toccava. Gli altri titoli di libri letti allora si potevano contare sulle dita di una mano: Cuore preso coi punti al supermercato, Le avventure di Gian burrasca, I ragazzi della via Pàl, qualche fumetto.

Quel libro di Epica che usavo per la scuola, e che la professoressa una mattina di fine marzo mi chiese di aprire a pagina duecentotrentadue, non era neanche mio, ma della persona che provava a spronarmi più o meno a vuoto mentre facevo i compiti. Su quasi tutte le pagine, ci trovavi scritte a penna rossa sulla rivoluzione, i bolscevichi, i gruppi armati latino-americani, e poi stelle a cinque punte, falci e martelli, slogan in onore di personaggi a me allora ignoti, auguri di morte violenta ai fasci.

In classe l’ansia cresceva, in quei giorni. Le interrogazioni si accumulavano come interessi di soldi presi a prestito. Bisognava prepararsi al peggio. La bocciatura non era esclusa tra le opzioni del futuro a breve termine, e il futuro allora era solo a breve termine, il giorno dopo o al massimo l’altro ancora. Chi cercava di farmi studiare entrava in stanza e mi lanciava una pallina di mollica di pane addosso. Vedeva che studiavo Leopardi, e allora iniziava a parlare di quanto Leopardi, a differenza di ciò che raccontava il libro di testo, amasse la vita (ma allora si può contraddire un libro di testo?). Una volta, mentre ripetevo Pascoli, mi disse che al poeta lo arrestarono per via dell’Ode all’anarchico Passanante e che in carcere lo sodomizzarono. “Seee, lo sodomizzarono…”. Non capivo mai quando scherzasse e quando invece facesse sul serio. “Ti giuro. Per quattro mesi. Gli fecero passare la voglia di fare l’anarchico…”.

I compagni di classe erano una spanna sopra in termini di voti e tre sotto in termini di maturità. La professoressa di italiano era l’unica a trasmettere una sorta di quiete, come una madre benevola. Noi eravamo i suoi cuccioli del primo anno: baffi da sparviero, brufoli in faccia, l’autostima sotto le scarpe. Fumavamo in bagno il puzzone di Di Nuzzo ed entravamo in classe con gli occhi rossi. Lei raramente alzava la voce, e quella volta in cui reagii all’insulto del professore di disegno prese le mie difese, costringendolo a chiedere scusa per avermi chiamato imbecille. Pure se non avevo studiato.

Quella mattina di fine marzo, invece d’interrogarci introdusse l’Iliade. Disse che il contesto era la guerra di Troia, un conflitto causato dalla dea della discordia che aveva gettato una mela d’oro con la scritta “alla più bella” durante un banchetto. Ci parlò di una guerra durata dieci anni, di re e di guerrieri leggendari come Agamennone, Achille, Odisseo, Ettore, Enea. A un certo punto alzò la testa. Incrociò il mio sguardo e pronunciò il mio cognome. “Apri il libro a pagina duecentotrentadue e leggi”, disse soave. Aprii quel libro di testo pieno di scritte incendiarie. Proprio su quella pagina, una frase a penna rossa: “Siamo nati per camminare sulla testa dei re”. Schiarendo la voce, iniziai a leggere: “Tutti gli altri sedettero, si mantennero ai loro posti, ma Tersite, lui solo, strepitava ancora, il parlatore petulante, che molti sciagurati discorsi nutriva nella sua mente, per disputare coi re a vuoto, fuor di proposito, pur che qualcosa stimasse argomento di riso per gli Argivi; il più spregevole, fra tutti i venuti all’assedio di Troia. Aveva le gambe storte, zoppo da un piede, le spalle ricurve, cadenti sul petto; sopra le spalle, aveva la testa a pera, e ci crescevano radi i capelli. Odiosissimo, più d’ogni altro, era ad Achille e Odisseo: perché spesso li svillaneggiava; quel giorno al divino Agamennone, gracchiando acuto, diceva improperi: contro di lui gli Achei terribilmente sentivano rabbia e sdegno in cuor loro…”.

“Fermati”, disse la professoressa. Poi continuò: “Ecco Tersite, ragazzi. Immaginatevi la scena: Agamennone, per mettere alla prova i soldati, propone di abbandonare la guerra e tornare a casa, ma è tutta una finta. La reazione è caotica: i soldati lo prendono sul serio e corrono verso le navi. In questo clima di confusione, questo soldato di nome Tersite si fa avanti criticando Agamennone per la sua arroganza. Ma la sua ribellione viene zittita da Odisseo, che ristabilisce l’ordine colpendolo e umiliandolo davanti a tutti”.

“E perché una reazione così esagerata?” – chiese Colantuono dall’altra parte dell’aula. Lei rispose con calma: “Tersite è un personaggio controverso, è l’antieroe per antonomasia. La voce del dissenso. Un soldato brutto, sgradevole, un vinto dall’atteggiamento ribelle. Tersite si distingue per il suo coraggio, ma anche per la sua sfrontatezza nel criticare Agamennone, il comandante supremo dell’esercito”.

Era quella, l’intuizione che a poco a poco diventava consapevolezza? La lezione da ricordare per sempre? Chi è che aveva il diritto di criticare il potere? E noi da che parte ci dovevamo schierare? Dalla parte di Tersite o di Odisseo? Bisognava cominciare a scavare più a fondo. Da quel giorno di fine marzo, una cosa era certa: quella figura umana così tragica di nome Tersite era troppo familiare per essere epica. L’avevo già incrociata mille volte per strada, sentita nelle cuffie per bocca di un rapper abruzzese, intravista in quei film noleggiati in videoteca. Era Stefano, il punk trovato dai custodi nei cessi dei giardini della Reggia. E ora stava proprio lì, sgradevole e riottoso, fuori la scuola di quel paesone della provincia meridionale, ad aspettarci al varco dei giorni a venire. (pomè)

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