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2 Ottobre 2018

Catania e la mafia negata. Sequestrati i beni di Mario Ciancio

Monitor
(disegno di cyop&kaf)
(disegno di cyop&kaf)

da: I Siciliani

Il giorno nel quale la procura ha presentato il decreto di sequestro e confisca per mafia dei beni di Mario Ciancio Sanfilippo, veniva fuori la notizia che due preti della chiesa di Santa Maria delle Salette, nel cuore del quartiere di San Cristoforo, sono indagati in un procedimento per mafia e traffico di droga. Hanno oscurato e scollegato le telecamere piazzate dai carabinieri sul campanile della chiesa che servivano per riprendere l’ingresso della casa di Salvatore Panassiti, secondo i carabinieri associato al clan mafioso Cappello-Bonaccorsi. In quella casa, considerata punto di riferimento logistico per lo smercio della droga, sono stati trovati migliaia di euro, armi da guerra, cocaina e cinque chili di marijuana.

Il primo volto della mafia catanese è questo: la droga. Fonte di un reddito di cittadinanza per migliaia di abitanti dei quartieri popolari della città. Tonnellate di cocaina, di eroina e di droghe leggere sono distribuite dai clan mafiosi a centinaia di associati che hanno il compito di gestirne la vendita e di intascarne parte dei profitti. Viene assoldato da questi un esercito di disperati mercenari: minorenni, donne, ragazzi violenti, immigrati senza alcun lavoro. Sono loro a consegnare le dosi, a fare da vedetta in caso di controlli di polizia, a rischiare per il trasferimento dei rifornimenti e dei soldi. Carne da macello da offrire a carabinieri e polizia durante i blitz. Milioni di euro di guadagni che arrivano ogni anno nelle tasche della mafia e che poi verranno reinvestiti, ripuliti, consegnati agli uomini in giacca e cravatta che si indignano per lo spacciatore sotto casa.

Poi ci sono le estorsioni: il secondo volto della mafia. C’è il pizzo per i commercianti e per le imprese spesso camuffato dall’imposizione di prezzi, di forniture, di servizi o ancora dall’assunzione forzata di dipendenti e dall’obbligo di cedere quote societarie. Infine camuffato dai subappalti nei lavori pubblici e nelle grandi commesse dei privati. Altri milioni di euro.

E gli affari: il terzo volto della mafia. Ci sono i mafiosi che decidono di mettersi in proprio, di reinvestire tramite prestanome, parenti, cognate, nuore. Una costellazione di discoteche, ristoranti, ditte che si occupano di rifiuti, aziende di autotrasporti, concessionarie di auto, filiere di distribuzione alimentare, a Catania è direttamente gestita dalla mafia. I fatturati importano fino a un certo punto: intanto si ricicla il denaro. Ogni tanto il tribunale sequestra, e tocca ai boss rintracciare nuovi prestanome. Ma alla cassa, il più delle volte, rimangono i clan.

Per gli affari della mafia ci sono pure gli imprenditori non mafiosi, quelli che tengono nei cassetti progetti e sogni di gloria. Loro sanno che, se avranno bisogno di denaro per i loro investimenti, esistono quei milioni di euro della droga e delle estorsioni. Per averli non dovranno parlare col ragazzino di San Cristoforo che intasca le banconote da venti euro, e nemmeno con quegli uomini dallo sguardo torvo e minaccioso che passano a imporre il pizzo. Ci sarà un amico, amico a sua volta di certi imprenditori, che favorirà gli incontri con gente tutto sommato rispettabile: cortese, disponibile, innamorata dei guadagni e con fiorenti conti in banca. Catanesi ricchi insomma. L’amico dell’amico sarà felicissimo di investire nell’impresa dell’imprenditore onesto. Si metterà in mezzo probabilmente pure qualche politico, bravo ad aiutare se ci sarà bisogno di qualche variante, capace di indirizzare nei vari uffici per ottenere i permessi. Tutto chiaro, limpido, fino a quando non si chiederà da dove arrivano quei soldi. Ma tanto quella domanda non si fa mai.

Della mafia degli affari a Catania si è sempre parlato poco, e quasi mai nelle aule dei tribunali. Quando all’inizio degli anni Novanta, dopo le stragi di Palermo, la parola mafia ha fatto definitivamente irruzione nella politica e nei discorsi istituzionali, quando è stato impossibile per chiunque negarne l’esistenza, a Catania si è scelto di isolarne il significato andando a indicare solo quelle moderne forme di brigantaggio che sono lo spaccio, l’ammazzatina tra balordi, lo scippo delle signore, il pizzo chiesto al salumiere. La mafia per i catanesi ha rappresentato un fenomeno presente sì, ma solo in certe zone, in certi quartieri. Mafioso è il ragazzo col doppio taglio ai capelli, con la musica neomelodica alla radio e un macchinone troppo costoso, mafiose le bancarelle abusive che vendono pesce e ortaggi, mafioso il posteggiatore che pianifica la zona dove controllare le automobili, mafioso il politico della municipalità, quello che non parla nemmeno un corretto italiano e che ostenta le proprie clientele.

Le foto di questi mafiosi, spacciatori, accoltellatori, esattori del pizzo sono sempre state pubblicate in prima pagina sui giornali. Sono state inviate centinaia di volte come allegato alle email dei comunicati stampa di questura e carabinieri, insieme ai video che riprendono le loro case, le loro macchine, i loro visi al momento dell’arresto. I loro nomi sbattuti in faccia a tutta la città per rassicurare che sono stati presi, che non nuoceranno più. Nome, cognome, anno di nascita e il carcere dov’è stato associato il criminale. I nomi dei clan pure, messi in mostra, come a dire che nessuno ha più paura di nominarli: Mazzei, Santapaola-Ercolano, Piacenti, Cappello-Bonaccorsi, Pillera-Puntina, Cursoti, Laudani. Rarissimi i casi nei quali i giornalisti chiedono agli avvocati di questi mafiosi, di questi spacciatori o rapinatori, di chiarire, di spiegare, di difendere i loro assistiti. Sono mafiosi, assicurati alla giustizia, senza alcuna pretesa di garantismo: punto e basta.

Il tessuto produttivo, elegante e borghese della città di Catania è considerato immune. «Catania è una città sana», tuona in televisione il segretario generale della Cgil. Anche negli ultimi anni la mafia degli affari ha continuato a essere coperta. Anche quando è stata toccata dalle inchieste della procura, ha vinto la prudenza. Gli avvocati degli imprenditori, con ampi spazi su giornali e televisioni, hanno sempre rassicurato circa errori giudiziari, accanimenti infondati, certezze di futuri chiarimenti che senz’altro scagioneranno i rispettabili assistiti. Nessuno ha subito dato del mafioso alla ricca persona indagata: tutt’al più un inciampo, un incidente di percorso. Nei casi più clamorosi una mela marcia.

Prudenza giustificata da quella sentenza del Tribunale di Catania che il 28 marzo 1991 assolse i cavalieri Costanzo, Rendo, Finocchiaro e Graci dall’accusa di associazione a delinquere e di rapporti con la mafia. “Ancorché sia sotto il profilo dogmatico configurabile il concorso eventuale di persone nel reato associativo – scrissero i magistrati catanesi – è da escludere che la ‘contiguità’ tra imprenditori e sodalizi mafiosi integri un’ipotesi di partecipazione esterna al reato di associazione per delinquere o di associazione di tipo mafioso, ove tale contiguità sia imposta dall’esigenza di trovare soluzioni di ‘non conflittualità’ con la mafia, posto che nello scontro frontale risulterebbe perdente sia il più modesto degli esercenti sia il più ricco titolare di grandi complessi aziendali”.

Un totem all’impunità questa sentenza tanto da scandalizzare persino i giornali nazionali. “Lo Stato s’arrende”, titolò La Stampa. “Lo Stato disse: comanda la mafia”, scrisse La Repubblica. Una sentenza che ha lasciato vincere non tanto i cavalieri ma tutti coloro che ne avevano preso le difese, tutti coloro che avevano sbeffeggiato quelli che finalmente vedevano un po’ di giustizia. Gli amici dei cavalieri tronfi, ringalluzziti, tracotanti hanno ripreso a comandare in città raccomandando a tutti di non commettere mai più lo stesso errore: Catania è una città sana. Una sentenza figlia di un tribunale anch’esso asservito ai potenti, agli uomini d’onore. Perché Catania ha sempre avuto una giustizia meschina e classista, forte contro i deboli e ossequiosa verso i ricchi: probabilmente il quarto volto della mafia catanese.

*     *    *

Le telefonate iniziano sabato 22 settembre. Pare che esista un decreto di sequestro e confisca per Mario Ciancio, sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Ciancio è il personaggio più influente di Catania, proprietario e direttore dell’unico quotidiano cartaceo della città, dominus di tutti gli affari edilizi, imprenditore con un patrimonio di circa un miliardo di euro. Senza dubbio l’uomo più ricco della Sicilia orientale. Il più bianco dei colletti.

Si dovrà aspettare il lunedì perché quelle voci soffuse, continuamente smentite, senza fonte né riscontro, trovino conferma. La procura di Catania convoca la conferenza stampa: sequestrati beni per centocinquanta milioni di euro a Mario Ciancio Sanfilippo. (continua a leggere…)

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