
Raccontare il lavoro nel XXI secolo significa confrontarsi con la sincronia di passato remoto e futuro prossimo. Con la permanenza e rimodulazione della schiavitù e con il proliferare di androidi, software e intelligenze artificiali, anche nello stesso settore, a volte nella stessa mansione. Nella provincia delle produzioni audiovisive, due esempi recenti – e agli antipodi – di narrazione del vissuto del lavoro offrono spunti per riflettere su come il lavoro sia raccontato, sulle ideologie e i miti che perdurano e su quel che resta fuori fuoco. Sono un documentario e una serie a episodi: il primo, After Work di Erik Gandini, presentato in anteprima al festival di documentari di Copenhagen; la seconda, Scissione, un prodotto Apple di enorme successo.
AFTER WORK. DOPO IL LAVORO, IL NULLA
Il regista italo-svedese Erik Gandini ha esplorato l’ossessione di apparire nell’Italia berlusconiana in Videocracy (2009), e gli effetti contraddittori del welfare svedese in A Swedish Theory of Love (2015). Nei sui documentari affronta i risvolti oscuri di apparenti successi, disseminando domande più che risposte. Con After Work, raccoglie le interpretazioni che lavoratori e lavoratrici danno delle proprie mansioni all’alba dell’automazione pervasiva, viaggiando in contesti diversissimi per evocare storie personali e i nessi tra vita e lavoro che ciascuna storia rivela. Gli individui che si raccontano (una fattorina americana di Amazon, un ricchissimo giardiniere per passione in Italia, un colletto bianco coreano patologicamente dedito alle sue mansioni, un annoiato dipendente pubblico del Kuwait) diventano personaggi emblematici di più ampie tendenze. Gandini mette così in scena contrasti e (apparenti) paradossi.
In Kuwait lo stato utilizza le ingenti entrate dalla vendita di petrolio per assumere centinaia di dipendenti pubblici a non fare nulla. Uno di questi suggerisce che un lavoro senza fatica, ma anche senza scopo, condanna alla depressione. Cambio di scena in Corea, di lavoro da fare ce n’è fin troppo. Una giovane donna seduta accanto al padre ipnotizzato dallo schermo per almeno sedici ore al giorno stigmatizza la dedizione cieca dell’uomo, che nella vita non ha fatto altro che questo, perdendosi tutto il resto. Ma lui è felice: ammazzarsi di lavoro è stato il modo di amare la sua famiglia. Scopriamo che in Corea la tendenza a lavorare senza sosta (anche sessantotto ore a settimana) viene contrastata dallo stato attraverso pubblicità che invitano a godere della famiglia e del tempo libero, e tramite un sistema centralizzato che spegne i computer delle grandi aziende alle 18 in punto.
Un’idea si fa strada: nel mondo contemporaneo l’etica del lavoro è diventata talmente pervasiva che lavorare indefessamente conferisce più senso che lavorare inutilmente, o non lavorare affatto. Questo paradosso è rapportato alla prefigurazione di un futuro “liberato dal lavoro” grazie alle macchine. Mentre automi e software sostituiranno sempre più gli umani, si imporrebbe la necessità di garantire la sussistenza con un reddito di base universale, ma le persone si sentirebbero comunque mutilate e infelici, poiché (apparentemente) ormai solo il lavoro dà senso alla vita. Quando ci viene mostrato un ricchissimo italiano che per svago e passione si dedica al giardinaggio professionale, pur potendo vivere senza lavorare, la tesi di Gandini sembra confermata.
È chiaro che il documentario confonde necessità e autonomia. La tesi si sfalda se, da un lato, si considera il bisogno di lavoro cui la maggior parte dell’umanità è condannata per quello che è: accettazione dello sfruttamento dettata dal bisogno, una condizione che si serve di una supposta etica del lavoro per nobilitarsi. Dall’altro lato, è proprio la dedizione a un compito scelto liberamente a costituire un antidoto all’alienazione connessa al lavoro salariato. L’autonomia di decidere cosa e come fare è profondamente diversa dall’imperativo di vendersi per vivere.
Gandini non può immaginarlo perché non guarda al mondo cooperativo, alle economie sociali e di sussistenza, al lavoro volontario, alle comunità autonome. In questi e altri ambiti, ai margini o al di fuori dell’economia (pur se a essa necessaria), si conferisce alla fatica un senso diverso dallo sfruttamento, dato dagli obiettivi che si perseguono e da come si perseguono. Soprattutto, ci sono collettività di riferimento in questi ambiti, non lavoratori atomizzati.
Me è poi vero che l’automazione renderà gli individui superflui nel processo di produzione? Davvero il futuro sarà libero dal lavoro? Di chi? Quale lavoro? È un fatto che una parte dell’umanità non può, o potrà sempre meno, essere assorbita entro uno schema di lavoro salariato. Un’umanità in surplus, senza collocazione e priva di mezzi di sostentamento, a cui è stata sottratta indipendenza senza fornire un’alternativa. Tuttavia, nel ventre della produzione e della circolazione di merci, milioni di persone non sono state liberate dall’automazione. Piuttosto, sono necessarie a essa: minatori di cobalto congolesi per le batterie elettriche, riciclatori manuali di immondizie digitali in Cina, perfino l’intelligenza artificiale del momento si affida a individui sottopagati in Kenya per correggere gli errori nelle frasi elaborate dagli algoritmi. Fuori dalla scena, il lavoro miserabile persiste. E questa classe, che sostiene il mondo virtuale, ha ancora pochi narratori.
Guardando ai paesi cosiddetti sviluppati, occorre registrare come l’etica del lavoro protestante sia stata integrata nel senso comune attraverso un’operazione di egemonia culturale. Frasi come “solo se lavori hai il diritto di vivere”, ”non gravare sulle spalle degli altri”, ”guadagnati la pensione”, segnalano la devastazione dell’immaginario che induce milioni di persone a credere che l’identità sociale sia conferita unicamente dal lavoro che si svolge, e non da quello che viene dopo il lavoro, oltre il lavoro, nonostante il lavoro. Questo trucco ha trasformato il lavoro in un dovere morale e non una necessità materiale e simbolica insieme. Poter mangiare le briciole è già giustificazione sufficiente a molti per difendere tale stato di cose. E così la guerra intestina tra lavoratori, e tra lavoratori e disoccupati, continua.
Eppure, anche questo modello culturale si sta incrinando. After work è datato, pur essendo nuovo. Non si spiega entro la sua logica il fenomeno della great resignation, o le grandi dimissioni: l’inusitato numero di persone che abbandonano il lavoro anche in una condizione di stagnazione economica e crescente inflazione. Inizialmente spiegata attraverso gli effetti del Covid, una chiave può essere trovata nelle trasformazioni delle condizioni di lavoro. Se prima si barattava la vocazione personale per la sicurezza materiale, ora che l’impiego non fornisce nessuna certezza e salari da fame, che senso ha accettare condizioni umilianti per mansioni che non si desidera fare, e solo finché non si viene arbitrariamente scartati?
Il lavoro alienato toglie tempo alla vita. E se non ricevi abbastanza in cambio nemmeno per sopravvivere, allora perché farlo? Sembra siano rimasti solo lavori odiosi e malpagati, e lo sanno bene pure i reazionari che stigmatizzano i percettori di reddito di cittadinanza. I primi a odiare il lavoro sono proprio loro, pur se ne tessono le lodi, loro che non accettano che ci siano delle persone liberate (temporaneamente e con pochi spiccioli) dal giogo.
SCISSIONE. RACCONTARE L’ALIENAZIONE
In Scissione va in scena lo strapotere sul lavoro di Lumon, una corporation che ha inventato una tecnologia in grado di scindere gli individui che assume – con il loro consenso – in due personalità distinte, ignare l’una della vita dell’altra, così da avere lavoratori dedicati esclusivamente alle proprie mansioni quando sono in ufficio, senza l’ingombro di affetti, passioni, traumi. La procedura di scissione permette al protagonista Mark di cancellare ogni ricordo personale mentre lavora, e allo stesso tempo di non ricordare nulla di quello che ha fatto una volta che la giornata è finita. Il sogno del bilanciamento vita-lavoro: escluderli a vicenda dall’occhio della coscienza.
Mark Scout prende l’ascensore al quartier generale di Lumon e diventa Mark S., anonimo responsabile di altri tre impiegati nell’ufficio asettico di Macrodata Refinement Division. I lavoratori non sanno cosa producono. Privati dei ricordi personali e senza il contesto del mondo esterno i tentativi di comprendere il proprio lavoro e l’ambiente in cui sono immersi risultano infantili e ingenui. La dedizione all’azienda diventa l’unica realtà possibile per gli internati. L’investimento affettivo nelle mansioni e la fede negli amministratori sono coltivate da sottili dispositivi psicologici e da vere e proprie torture da parte dell’azienda.
Il motore dell’intreccio narrativo è l’inarrestabile empatia che emerge nel gruppo dei lavoratori scissi. Li osserviamo costruire legami tra loro in risposta all’oppressione dell’ingranaggio in cui sono inseriti. Il lavoro è l’inferno in questa serie. La vita vera è quella fuori. Scissione diventa così una storia sulla presa di coscienza di lavoratori che si organizzano per contrastare le gerarchie e illuminare l’oscurità in cui sono mantenuti attraverso l’arma più combattuta dai padroni: la solidarietà. La cura degli uni per gli altri acquista più importanza delle mansioni insignificante cui sono condannati. Contro la metafora “in ufficio non sei una persona ma un lavoratore” che Scissione mette in scena, le azioni degli assoggettati nel creare un comitato sindacale informale all’interno dell’azienda rimarcano che solo insieme ci si può emancipare.
Il vero problema dell’automazione e dell’avanzamento tecnologico sul posto di lavoro (aggeggi come la procedura di scissione) è che sottraggono ulteriormente spazio di manovra e senso al lavoratore. Lo sanno bene rider, fattorini, magazzinieri, costantemente controllati, seguiti, valutati e cronometrati dagli stessi apparati tecnici che rendono possibile il lavoro che svolgono. La tecnologia continua a fare quello che faceva cento anni fa nella fabbrica fordista: permettere l’estrazione di più valore possibile dal lavoro vivo delle persone. Il corpo e la mente sono ancora il luogo in cui sperimentare nuove modalità di gestione per estrarre valore. La procedura di scissione non è altro che lo specchio del tentativo delle aziende nel mondo reale di usare la tecnologia per piegare sempre più il lavoratore. Nella serie, pur non sapendo niente delle proprie vite fuori e pur ignorando cosa sia un sindacato, i lavoratori imparano a ribellarsi a partire dall’empatia tra loro e dal desiderio insopprimibile di conoscere gli effetti di quello che fanno.
Vengono in mente i luddisti dei fine Ottocento, i quali distruggevano le macchine non perché a causa loro avevano perso il lavoro, ma perché l’automazione li stava privando del significato che vi attribuivano e delle modalità semi-artigianali che gli garantivano di poter controllare il processo, finanche di potersi identificare con il prodotto. L’automazione li costringeva a diventare delle appendici delle macchine, dei manutentori degli ingranaggi e degli attivatori di leve e pulsanti. In breve, degli schiavi delle macchine stesse.
Ora che al lavoratore viene richiesta non solo una mansione, ma la gioia di dedicarsi alla mansione, l’identificazione con l’azienda, l’evocazione di un legame affettivo con il prodotto e con il cliente – come scriveva Mark Fisher e come Scissione mostra attraverso il sarcasmo e l’orrore – la vera rivolta è smettere di considerare la propria vita una funzione del destino dell’azienda, non condividere con il capo l’importanza esclusiva data al successo aziendale. E soprattutto, non limitare la propria identità al lavoro che si svolge. Oltre a trasformarci in docili esecutori, escludere i nostri valori e le nostre storie personali dal lavoro che facciamo, conduce ad accettare l’immoralità implicita, o la sofferenza causata, da un dato lavoro. D’altra parte, la società dominante ama segmentare le esperienze così da non farle intralciare l’una con l’altra.
SEGNALI DI VITA
La questione centrale non è che senza fare un qualsiasi lavoro perderemmo di senso, ma come ci si possa riappropriare del senso del lavoro. La traiettoria globale verso il collasso ecologico e lo sconvolgimento del clima per eccesso di produzione e consumo non ha solo messo in crisi l’idea di progresso lineare alla base dell’ideologia sviluppista dell’Occidente. In maniera cruciale, ha estremizzato due contraddizioni del lavoro inerenti al modo di produzione capitalista.
C’è l’immoralità del lavoro: le attività che contribuiscono alla distruzione in un modo o nell’altro, che ipotecano salute, futuro, vita. Contraddizione non nuova, basti pensare al ricatto salute-lavoro nei settori più inquinanti, che oggi ha ramificazioni planetarie. Si può continuare a essere complici di un sistema criminale votato all’autodistruzione? Eventi recenti in ambiti diversi rinnovano la tradizione sommersa della presa in carico dei lavoratori degli effetti del loro operare. I portuali di Genova che si rifiutano di caricare armi destinate ai sauditi che saranno impiegate nella guerra in Yemen e bloccano le navi, affermano che no, questi lavoratori non cooperano con operazioni di morte (attuando tra l’altro il dettato costituzionale), non oggi, non qui. Dall’altra parte del continente, nel Regno Unito, un’associazione denominata Lawyers are Responsible (gli avvocati sono responsabili) mette insieme più di centoventi avvocati che per ragioni di coscienza hanno deciso di ritirare la loro disponibilità a contribuire agli aspetti legali dell’approvazione di nuovi progetti di combustibili fossili, e di rifiutarsi di rappresentare la pubblica accusa in processi contro attivisti climatici che esercitano il loro diritto costituzionale alla protesta. Le ragioni, affermano gli avvocati, sono radicate nella “solidarietà con tutti coloro che sono in prima linea nelle crisi climatiche ed ecologiche” ed emergono dalla preoccupazione che le azioni finora insufficienti dei governi per affrontare la crisi climatica pongano un rischio esistenziale per lo stato di diritto in generale.
Infine, c’è il rifiuto del lavoro: un senso comune emergente, dato dalla congiuntura storica e dalle trasformazioni del lavoro stesso, che occorra muoversi collettivamente verso meno produzione, meno consumo, meno fatica inutile e umiliante, più cura delle relazioni, più convivialità e più manutenzione dell’esistente. Ne sono un esempio le molte esperienze di vita frugale e comunitaria, la rinnovata attenzione alla terra e alle economie sociali legate ai territori, le reti informali urbane di servizi e di cura. Semi molto fragili, certo, con il rischio di essere riassorbiti e strumentalizzati, ma allo stesso tempo prefigurazioni di cui si sente un disperato bisogno. L’aspirazione è rallentare, e provare a ricongiungere lavoro e vita, contro tutto quello che ci hanno trapanato dentro in termini di ambizioni, desideri e false necessità fin dall’alba del capitalismo. (salvatore de rosa)