
Quando Enid vuole partire dice a Becky: «Io vorrei essere una persona diversa […] e tu mi ricordi tutto quello che vorrei dimenticare».
Città fantasma. Queste le due parole che continuano a tornare nelle pagine del libro di Daniel Clowes da poco rieditato da Coconino a venticinque anni dalla sua prima uscita (nel 2001 la storia è stata adattata al grande schermo, mantenendo lo stesso titolo, sceneggiata dallo stesso Clowes e con Scarlett Johanson e Steve Bushemi).
Città fantasma è il mondo nel quale si muovono Enid e Becky, due giovani ragazze che si apprestano a finire il liceo. Dopo anni di una simbiotica amicizia le strade delle due sembrano non andare più nella stessa direzione. Entrambe sono un po’ intellettuali e un po’ fuori dalla norma. Enid ha un padre molto affettuoso, ma incapace di trovarsi una compagna stabile, condizione che ha obbligato la ragazza a sopportare molteplici figure femminili negli anni, alcune più piacevoli di altre ma comunque sempre passeggere. Ogni gesto e pensiero della giovane riflette questa infanzia costellata di cambiamenti e di incertezze, lasciandola sempre irrequieta e in cerca di un’identità che non riesce a trovare. Becky invece è più calma, “perbenino” la definisce l’amica, ma solo in apparenza. Le due vivono ogni emozione, anche la più intima, pensando già al momento in cui potranno condividerla una con l’altra, in un rassicurante, ma puerile, rapporto di amicizia. Le amiche si muovono così in un mondo ambivalente, sospeso tra il vero e l’irreale, che riflette l’immaginario di un’intera generazione, quella cresciuta a cavallo degli anni Duemila, ma nel quale si muovono personaggi strampalati, assurdi e comici, eppure verosimili.
Daniel Clowes fotografa l’amicizia delle due ragazze, descrive quell’incredibile lacerazione che si prova quando bisogna, inevitabilmente e soprattutto in gioventù, lasciare il vecchio per il nuovo. Ci racconta, attraverso eventi apparentemente banali, la vita delle due ragazze, e un momento tanto complesso quanto tragico, che riesce a riportare al lettore con una freddezza chirurgica: la separazione.
Ghost World è invece la scritta che appare ovunque sui muri della città americana, non meglio definita, che serve da teatro alla storia delle due protagoniste. Appare sui palazzi, sul garage di Enid, persino in cielo, nessuno sa chi l’abbia dipinta o perché, ma la cosa pare non interessare. Anche il lettore, così, dopo qualche pagina cessa di prestarvi attenzione, come fosse il seme di una verità che l’autore vuole far scoprire, ma non subito. Una verità che bisogna portare in tasca lungo tutto il racconto per decifrarne il senso solo alla fine.
L’opera di Clowes è terribilmente divertente e comicamente triste, dipende da come la si sceglie di leggere. Le emozioni che attraversano i personaggi sono così coinvolgenti perché appaiono vere, reali. Lo stesso Clowes scriveva d’altronde del fumetto come unico mezzo di narrazione in grado di “riflettere la vera natura della coscienza umana”, uno strumento che sintetizza la lotta tra l’immaginazione e la realtà, grazie all’utilizzo di parola e disegno.
Ma se a venticinque anni dalla sua pubblicazione Ghost World non ha ancora stancato i lettori, e anzi non cessa di interessarne di nuovi, è forse per una ragione semplice: come uno scienziato riesce a catalogare e isolare i vari elementi che compongono lo scibile, così un abile osservatore della vita umana riesce a scomporre emozioni universali, ancestrali e poi travestirle per raccontare una storia, che seppur lontana dalle nostre vite, suona terribilmente familiare. Così fa Daniel Clowes, in maniera molto cruda, ma altrettanto efficace. (eva de prosperis)