
NATO IN IRAN
Majid Bita
Canicola, 360 pagine, 25.00 euro
Come nasce questo libro?
Sentivo la necessità di raccontare almeno un po’ la realtà iraniana che nel nuovo mondo in cui mi ero trasferito non veniva raccontata; e quando veniva raccontata nessuno aveva voglia di ascoltarla. Io vengo da un paese pieno di conflitti e praticamente distrutto nello sguardo di chi dell’Iran conosce solo quel che viene rappresentato dal regime; oppure ciò che viene diffuso dalla propaganda occidentale, americana soprattutto. In mezzo a tanti conflitti, interni ed esterni, c’è un popolo con tutta la sua storia che merita di essere raccontato. Volevo soprattutto raccontare la storia della mia generazione, di bambini nati negli anni Ottanta, dopo una rivoluzione oggi considerata “catastrofica”, e quelli nati nel corso di una guerra lunga e rovinosa, proprio come la rivoluzione del 1979.
Ho cominciato a scrivere questo fumetto con l’idea di pubblicarlo, ma ero più che indeciso. Mi sono presentato in Accademia di Belle Arti a Bologna, all’esame di ammissione del corso di fumetto, dicendo “sono qua per scrivere il mio libro”. Ma ero ben lontano dal mondo del fumetto. Ciò che mi motivava era una necessità personale, intima. Volevo documentare i miei più ambigui ricordi dell’infanzia. Con quel senso di nostalgia, quel sentimento che ogni giorno, vivendo lontano dal mio paese, cresceva in me sempre di più. Oggi, dopo nove anni in Italia, non mi mancano tanto i luoghi iraniani, ma le persone con cui ho vissuto e sono cresciuto. Volevo raccontare questi individui, in un modo non stereotipato e non contagiato dalla politica.
Tu disegni e dipingi ma Nato in Iran è il tuo primo fumetto. Il fumetto non è sempre un passaggio naturale per un disegnatore. Richiede una metodologia e un’organizzazione diversa dello spazio e del tempo. Come è stata questa esperienza per te?
In Iran abbiamo una grande cultura illustrativa, ma di fumetto abbiamo quasi niente. C’erano pochissimi fumetti che arrivavano in Iran a causa della censura di regime. Leggevamo vecchi fumetti degli anni Settanta, ma di produzioni nuove e più contemporanee c’era poco. Qui in Italia ho cominciato a leggere fumetti. Ma per fare il mio fumetto la cosa che mi ha aiutato di più è stato il cinema. Mi considero un cinefilo e il cinema mi è servito per trasformare i miei disegni in fumetto. Ho cominciato senza tanti pensieri. Non c’era nessuna richiesta da parte di nessun editore all’inizio. Così avevo la massima libertà. A parte tutta la mia ricerca personale chiedevo aiuto e consigli, sia ai fumettisti che in Accademia ho avuto la fortuna di frequentare come Andrea Bruno, sia agli amici che ho incontrato in questi anni, Edo Chieregato, Emilio Varrà e Gianluca Costantini, che mi hanno sempre dato consigli preziosissimi. Ma tutto il libro è stato scritto e soprattutto disegnato nella mia solitudine notturna e nei momenti più intimi, in cui i commenti più diretti e freschi arrivavano da parte di Hanieh, mia moglie illustratrice. Durante la pandemia il mondo era cambiato e io proprio lì ho colto l’occasione per capire che cosa volevo fare finalmente con questo libro.
A Bologna hai frequentato il corso di scrittura creativa, mi chiedo come questo abbia influenzato il tuo modo di raccontare. I primi racconti, a differenza degli ultimi due, hanno una struttura più fluida, mischiano sogno e veglia, fantasia e reale. Sembri quasi lasciare che la storia segua il suo flusso, un po’ come fanno i sogni o i ricordi. È così?
In Accademia a Bologna ho cominciato a scrivere grazie al corso di scrittura creativa con Emidio Clementi. È lì che ho scritto il mio primo racconto dove raccontavo le storie portate con me per più di trent’anni. I ricordi della mia infanzia sono tutti legati alla guerra, a situazioni molto difficili da concepire per un bambino. Volevo scrivere in italiano ma erano solo tre anni che vivevo in Italia e sapevo poco della lingua. Ho cercato di scrivere in persiano ma non funzionava come volevo. Non volevo offrire una cosa già tradotta nel mio cervello, così ho scritto direttamente in italiano e presto ho ricevuto commenti positivi da chi mi leggeva. Scrivevo come un iraniano che sa l’italiano e scrive senza tradurre i concetti dal persiano in italiano. Sono stato accolto e ho trovato la fiducia necessaria per continuare a scrivere. Poi è vero… i primi due racconti sono sempre i primi due che ho scritto e secondo me sono i due più complicati. Sia per me che per il lettore. In realtà non sono nemmeno “racconti”. Sono dei ricordi, dei momenti, delle situazioni, sono incubi e cose ai confini tra la realtà e la fantasia. quindi se leggendo non si capisce cosa sta succedendo, dove siamo… vi trovate dove stavo io. Volevo mettervi al posto mio. Invece negli ultimi racconti le cose diventano più chiare, più reali, più raccontabili per me e più leggibili per il lettore. Questa incertezza è ciò che ho vissuto in Iran. Sotto le bombe di Saddam, oppure sotto le mitragliatrici dell’elicottero del dittatore…
Uomini corvo, una bambina “fantasma”, Jinn, incubi… La presenza del “fantastico” è un elemento importante per te?
Sono cresciuto con le storie della nonna che era una bravissima narratrice. Se sono capace di raccontare è anche grazie a lei e a casa sua, la casa-giardino dei nonni dove gran parte del mio fumetto è ambientato. L’Iran poi è un paese ricco di fiabe e di letteratura e folclore di diverse etnie. Quindi forse anche la mia nonna, che aveva vissuto una vita ricca di avventure, mi ha trasmesso tutta questa visione fantastica, la stessa visione del mondo che anche a lei serviva per sopravvivere. A me è servita per raccontare. I corvi e i gatti neri erano creature molto presenti nei miei sogni ed erano le protagoniste dei miei incubi. I Jinn sono protagoniste assolute di racconti popolari iraniani. I Jinn che diventano le compagne dei giochi dei bambini. I Jinn che ti invitano ai loro matrimoni e alle feste serali. I Jinn che ti regalano gioielli, i Jinn e anche altre creature malvagie che ti vengono a spaventare se hai rovesciato l’acqua bollente per terra dopo mezzanotte. In qualsiasi angolo di quella grande casa vivevo tutte queste storie… Il fantastico mi dà più materiali per raccontare una realtà non così piacevole da vivere come l’ho vissuta io. Ma questa non è una maniera che utilizzo solo per fare fumetto. Anche nei miei disegni ho sempre cercato di trattare questioni sociali e politiche con questo sguardo. Mi appoggio sulla fantasia. In quel mondo fantastico mi sento più capace di “far vivere” le sensazioni.
I primi tre racconti si svolgono nello spazio confinato della casa di famiglia. Uno spazio sia immenso che claustrofobico. Un labirinto, un territorio da esplorare per te e i tuoi fratelli. Tutto in casa respira, tutto è costruito di ricordi, leggende, memoria. Che rapporto hai con i ricordi di cui parli nel libro? E come hai fatto a scriverne con così tanta chiarezza?
La casa dei nonni era un luogo dentro cui si conservavano quasi duecento anni di storia iraniana. Ovunque giravo in quella casa trovavo un tesoro. Poteva essere un libro nascosto in una scatola messa nello scantinato, oppure un vecchio giocattolo seppellito che trovavo scavando la terra nel giardino. Poteva essere il racconto di quel giorno in cui scoprirono un fucile tra i muri dei sotterranei. E forse anche uno dei racconti che c’è nel libro, la storia di Narges, la ragazzina accecata nelle cucine affumicate della casa perché cucinava per gli uomini che venivano a mangiare e a festeggiare tutte le sere. Ma non si trattava solo delle storie. A casa dei nonni spesso si radunava tutta la famiglia. Ognuno veniva da una diversa città (a volte per motivi di lavoro), nonni, cugine e cugini, zia e zio e a volte anche parenti più lontani. Da queste serate nascevano nuovi racconti, nuove storie e tante scoperte. Ognuno degli adulti aveva anche un’idea politicamente diversa e io bambino, adolescente e poi giovane adulto riuscivo a capire sempre di più che nessuno, dentro o fuori di quella casa, aveva tutta la ragione e nessuno sapeva tutta la verità sulla realtà soffocante che il regime ci aveva preparato al di là dei muri delle nostre case.
L’amore per l’Italia, che ti porterà fin qui, come nasce?
L’Iran non è mai diventato una colonia di nessun paese europeo, ma gli atteggiamenti colonialistici c’erano. Sempre presenti. C’erano gli inglesi, c’erano portoghesi, russi e francesi. L’Italia verso l’Iran ha mantenuto un rapporto artistico e commerciale, più che politico. Per questo motivo la società iraniana non ha mai avuto brutti ricordi e conflitti nei confronti degli italiani. Io avevo membri importanti della mia famiglia, vicini e lontani, che avevano viaggiato, vissuto o studiato in Italia, e me ne raccontavano con un rispetto diverso di quando mi parlavano, per esempio, degli Stati Uniti. Poi a casa, nei periodi in cui abbiamo avuto pochi materiali artistici ed educativi “non censurati dal regime”, erano anche le produzioni italiane, importate in Iran già dagli anni Settanta attraverso la mia famiglia, che ci salvavano. C’erano libri della storia dell’arte che mi facevano appassionare dei maestri dell’arte italiana. C’erano dischi di musica popolare italiana che ascoltavamo, mentre i musicisti iraniani e anche stranieri venivano censurati in Iran. Crescendo, anche il cinema italiano mi ha ispirato. C’erano gli scrittori italiani degli anni Settanta, c’era la nostalgia che mantenevano questi miei parenti per l’Italia, c’erano gli stessi italiani che frequentavano l’Iran e organizzavano attività culturali legate all’ambasciata italiana a Teheran. Ricordo serate di poesia e letteratura iraniana e italiana in collaborazione con riviste iraniane, autori e scrittori iraniani o italiani e altre cose interessanti. Avevo anche la passione di imparare l’italiano. Avevo voglia di vivere un po’ (non per sempre) i luoghi in cui avevano vissuto i personaggi italiani importanti che conoscevo e adoravo.
La postfazione è molto importante per capire meglio la tua storia e per dare più “contesto” al libro. Parli della tua condizione di “mezzo esiliato”. Tu, a differenza di altri, hai potuto scegliere. Questa “scissione”, come influenza il tuo lavoro?
La postfazione all’inizio non era scritta per essere inserita nel libro. Era scritta come introduzione della mia tesi di laurea su “arte e letteratura iraniana in esilio”. L’ho scritta sotto forma di un racconto molto personale. Scrivendo mi sono sentito sempre più collegato alle esperienze degli autori esiliati che stavo studiando. Ma allo stesso tempo non potevo paragonarmi, per esempio, con gli autori che per uscire dall’Iran erano costretti a fare viaggi lunghi e pericolosi per attraversare i confini e salvarsi la vita. Non mi sentivo nemmeno in grado di capire quel che avevano vissuto i grandi intellettuali iraniani scappati dal regime dittatoriale dello Scia, prima del ’79. Appartenevo a una generazione che nasceva dopo la rivoluzione khomeinista e proprio in mezzo alla guerra tra Iran-Iraq. E poi le conseguenze rovinose di entrambi questi eventi. Ma avevamo anche vissuto il periodo delle riforme, in cui pensavamo che stesse cambiando la situazione. Poi è arrivato il momento in cui non avevamo più speranza e anch’io come tanti ho deciso di partire. Ma alla fine è stato un percorso non veloce e non urgente. Non uscivo dall’Iran perché la polizia del regime veniva a bussare alla mia porta (lo fa ancora con tanti altri e anch’io ho vissuto un periodo del genere), ma mentre tutto era finito. Le strade erano calme e non c’erano più le manifestazioni in piazza. Ero ormai formato, ero un albero adulto! Ma da “artista” avevo ancora tanto da fare. Avevo le radici, ma non nella mia terra. Ero temporaneamente piantato in un vaso. In esilio quasi mai vivi quella stabilità che uno può vivere solo dove è nato (se la situazione sia tranquilla). Non sai se torni o se rimani. Certe volte, anche nei momenti più stabili, qualcuno dentro di te chiede “ma perché sei partito?”. Sei mezzo esiliato perché chi ti ha spinto verso la strada di “partire”, non ha nemmeno il coraggio di dirti che sei condannato, che sei esiliato.
L’esilio sembra essere una condizione di estrema fragilità nelle tue parole. Pensi che possa anche essere una forza questa condizione di estrema tensione e (strappo) fra due mondi?
Posso capire che ciò che nasce dalla sofferenza e ciò che nasce per essere contro la cosa sbagliata e soffocante, può essere considerata arte e arte di buona qualità. Ma è una cosa rara nel mondo di oggi. Non succede spesso. Quando ero ancora in Iran e vivevo sulla mia pelle questa dittatura, facevo disegni molto più arrabbiati, più vivi e più legati alla realtà che c’è in Iran ancora oggi. Conosco molti autori iraniani che in Iran, lavorando sotto la censura e sotto il peso delle minacce del governo, erano diventati dei modelli di artisti che non si arrendono alla repressione. Ma proprio loro, uscendo dall’Iran e vivendo l’esilio, sono stati spenti. E ciò che producono in esilio non viene più riconosciuto come quel che era. In poche parole sono finiti emigrando. Possiamo citare tanti autori che fuori dall’Iran non sono mai riusciti a scrivere nella lingua del paese che li ospitava. E non potevano più scrivere nella madrelingua come scrivevano prima di uscire. È vero che questo blocco dipende da tanti fattori. Per esempio, da autore mediorientale si può venire a vivere in esilio scrivendo solo per confermare le idee o i cliché occidentali sul Medio Oriente. Accettando di essere solo la “vittima” del mondo in cui si è nati. Ma al di fuori di questo contesto, no. L’esilio ti blocca. Ti dà poco e ti ruba tanto tanto. (a cura di miguel angel valdivia)