FIORIDLATTE
Miguel Vila
Canicola, 176 pagine, 19 euro
L’ascesa verso un amplesso e una parola in dialetto veneto (‘more – amore) ci spingono a capofitto nell’universo in espansione di Miguel Vila: la provincia del Nordest italiano, laccata e lineare – ma solo in superficie – e le esistenze aggrovigliate delle persone che ci vivono. Fiordilatte, il nuovo libro di Vila pubblicato dalla casa editrice Canicola, è uno zoom vertiginoso nell’intimità di Stella, Lulu, Marco e Daniele, giovani abitanti del borgo immaginario di Bessaniga, legati tra loro dalla necessità – spesso egoistica – di amare ed essere amati, dalla paura della solitudine o anche semplicemente dall’inerzia della routine.
Come già in Padovaland, prima opera di Vila, anche qui ritroviamo una serie di piccole cattiverie, bugie e gesti d’affetto più o meno goffi, in cui i personaggi riversano le proprie insicurezze e il bisogno di superare i propri traumi. Quando leggo e ripasso un libro di Vila non posso che sentirmi osservata, messa a nudo. Ma, mentre frammenti della mia vita emergono dalle sue tavole, mi è anche chiaro che quelle scene intime – sessuali ma non solo – confluiscono in qualcosa di più grande e caleidoscopico in cui io stessa svanisco: l’umanità.
E questo succede perché Vila ha un pregio: sa vedere i dettagli dell’emotività e della corporalità umane e li disseziona senza pudore. Anche grazie a un buon uso delle geometrie – la narrazione procede attraverso quadrati, cerchi e rettangoli di varie dimensioni che rendono la lettura piacevolmente ritmica – questo tipo di sguardo diventa potentissimo.
Ed è così, avanzando per dettagli-particolari-indizi, che arriviamo a conoscere Stella, Marco, Lulu. Può essere un modo spietato perché funziona come una lente di ingrandimento che fruga nelle piaghe della vita. Ma è proprio grazie a questa invadenza che Fiordilatte riesce a parlare genuinamente di sesso, filie, desideri, disagio e godimento, e, nello stesso tempo, a mostrare quanto l’idea che esista una “normalità” non sia altro che una chimera.
“Vorrei solo saper scopare come tutti gli altriii”, dice a un certo punto Marco, sfigurato dalle lacrime. Non è una frustrazione dovuta (solo) alla sua giovane età – i protagonisti hanno tra i diciotto e i trenta anni – ma piuttosto uno squarcio su quanto sia importante (ri)conoscersi anche attraverso il proprio modo di vivere l’erotismo. Il tema può essere controverso e di certo c’è bisogno di parlarne di più, anche per questo è un bene che ci sia un libro come Fiordilatte. (caterina morbiato)
Caterina Morbiato: In Fiordilatte c’è un momento in cui appare, anche se solo per un attimo, Giulia, una delle protagoniste del tuo primo libro, Padovaland. Cosa succede in quell’incrocio di strade in cui appare Giulia? Qual è la connessione tra i due mondi e quindi tra i tuoi due libri?
Miguel Vila: Quel che accade in quella pagina potrebbe essere una specie di indizio di qualcosa che manca nel mio secondo libro, una possibilità che avevo preso in considerazione, ovvero fare un sequel del primo libro. Era un’opzione ma poi parlandone con i miei amici e pensandoci di più non mi è sembrata l’idea migliore, poteva consumarsi in fretta. Nel frattempo avevo già pensato a questa nuova storia, che mi sembrava rischiosa e difficile perché il tema è pesante, però sembrava funzionasse di più. Se ho mostrato questo piccolo cameo è perché sono comunque affezionato ai personaggi del primo libro e volevo almeno dedicare una piccola apparizione a uno di loro. In futuro mi piacerebbe anche riprenderli, raccontare un’altra storia in un altro momento della loro vita.
CM: Ovviamente ci si affeziona ai personaggi che si creano. A me sembra che i tuoi personaggi sono legati al tuo mondo quotidiano e che riesci a scandagliare quello che hai intorno con un livello di intimità in cui c’è anche molto affetto…
MV: Affetto no, c’è un interesse nel vedere quanto puoi denudare anche a livello figurativo quel personaggio. Come puoi trasformarlo a seconda delle situazioni. Anche mostrare un personaggio da nudo o da vestito vuol dire che devi un po’ capire come funziona quel personaggio: sono due dimensioni che gli appartengono e che ti dicono qualcosa di lui o di lei. È più una ricerca formale, poi può capitare che mi sia affezionato a quei personaggi: un po’ mi sono ispirato a delle persone che conosco, un po’ ho messo qualcosa di me stesso e quindi per forza c’è anche dell’affetto… però poi posso trattarli come voglio e quando è necessario serve anche creare delle situazioni angoscianti perché la storia lo richiede.
CM: Ok, è curioso quello che dici rispetto allo studio formale. Soprattutto in Fiordilatte, quando si chiude il circolo della storia, denudi alcuni aspetti che sono molto delicati e c’è anche della tenerezza nel voler mostrare la vulnerabilità dei personaggi. Io ritrovo delle forme dell’amore che magari si schiantano contro dei muri ma che rompono con quello che è considerato “normalmente” come amore…
MV: È vero, ho rappresentato delle scene d’amore, in senso di affetto, tra due persone, però ho cercato di mostrare quella che è una versione più animale di amore. Quindi c’è del tenero, delle scene che potrebbero essere definite quasi romantiche però che sono più vicine a quello che è l’amore reale con le sue complicazioni, con le sue performance bizzarre. Anche il fatto che c’è una scena d’amore con due che iniziano a menarsi, è una cosa poco ideale però è come molta gente che conosco fa l’amore, e lo fanno in modo consenziente. Non c’è un’intenzione di voler parlare tanto d’amore, mi interessa di più mostrare questi processi della vita, poi sono molto selettivo e decido di mostrarne alcuni piuttosto che altri.
CM: Tu i corpi li esamini nel dettagli, quasi con uno sguardo voyeuristico, poi però, in contrasto, rappresenti un contesto architettonico – quello della provincia veneta – molto squadrato, pulcro, quasi da depliant turistico. Che relazione c’è tra queste due rappresentazioni?
MV: Ti premetto che normalmente quando faccio le cose non ci penso (ride), però se devo razionalizzare queste scelte secondo me alla fine, se prendi l’architettura, ho deciso di valorizzare quello che è brava a fare: tracciare linee rette. L’architettura è una cosa artificiale, nata da un concetto. Mentre i corpi funzionano diversamente e li devi valorizzare per le loro imperfezioni, che poi sono quello che rende interessante un corpo rispetto a un altro. Che tessitura hanno, che segni, quali preponderanze, quali stranezze facciali: ogni corpo ha il suo processo biologico, la sua chimica, la sua vita, ha avuto i suoi incidenti. Non puoi descriverli con linee geometriche, che è una cosa che per esempio fa Chris Ware, che sia architetture che facce le fa tutte in modo geometrico. Io ho preferito mostrare i corpi nell’aspetto crudo e meno razionale perché sono creazioni biomorfiche, hanno un modo diverso di ragionare da quello dell’architettura.
CM: In questo senso mi viene in mente che quello che fai con i corpi si contrappone a quello che succede in certi social media come Instagram, dove la tendenza più forte è quella di filtrare, lisciare le pelli, ridimensionare nasi, orecchie, mentre tu invece insisti molto sui dettagli del viso…
MV: Io insisto però alla fine le persone se le vedi sono così! Hanno davvero quelle facce esagerate, sono sproporzionate, lo siamo tutti così. Quello che vediamo in Instagram è una cosa selettiva, ma anche a me forse capita di essere selettivo perché scelgo determinate bruttezze rispetto ad altre. Instagram quello che fa è sostituire la realtà che vediamo con gli occhi con una bellezza filtrata, ma lo stesso fa Hollywood, il cinema, anche quando cercano di modernizzarsi… come sarà successo anche a me, non sempre riusciamo a raccontare il mondo reale; siamo sempre selettivi, lo definiamo a nostro piacimento anche quando vogliamo essere realistici. È un discorso difficile, parlare di estetica è una cosa che va al di là delle mie capacità, parlare di cosa scegliamo che è bello o no è una delle cose meno assolute del mondo, che cambia in continuazione…
CM: Quando ho letto il tuo primo libro mi sono venuti in mente i lavori di Robert Crumb e Daniel Clowes, e poi ho pensato che sei agli antipodi di quello che invece fa Milo Manara. C’è un’intervista in cui Crumb parla del fatto che, per lui, rappresentare certe filie sessuali rompeva con l’idea che fossero stranezze o anormalità, ma invece qualcosa di molto più comune di quanto non si pensi. In Fiordilatte certe fantasie sessuali fanno anche funzionare la vita di certi personaggi. Per tornare all’inizio, vorrei sapere come ti relazioni con i lavori di questi tre fumettisti.vv
MV: Beh, Milo Manara è molto più lontano, ma non perché disprezzi Manara, però mi sembra molto canonico, è bravissimo ma non sono quei corpi che mi interessa disegnare. Invece Crumb fa una cosa che può somigliare ma alla fine è lo stesso con lui: a me non piacciono le donne che disegna. Però è uno stile un po’ sporco che punta su delle strambezze che possono venire fuori con i desideri sessuali. Poi magari la gente non avrà il coraggio di dirtelo, ma secondo me ognuno ha una stranezza sessuale nascosta. Arriva sempre fuori quando ci sono i rapporti sessuali qualcosa di strano, qualcosa che ti porta al di là delle tue conoscenze. In Fiordilatte ho deciso di rappresentare questo tipo di fetish perché mi sembra che nessuno ne parli, non tanto del fetish in sé, ma di questa gamma di cose che non riguardano il normale rapporto sessuale, per aprire un mondo, per sfondare una porta su qualcosa che invece esiste. Ci sono tante fantasie, modi bizzarrissimi di vedere le persone. È tutto molto complicato, i desideri sono come l’estetica: non sono spiegabili, sono uno strano connubio tra animalesco e umano.
CM: Un’ultima cosa, io sono di Padova come te e ritrovare il dialetto padovano in vari dei tuoi personaggi mi ha fatto vivere le storie in maniera più intensa. Qual è il tuo rapporto con la lingua?
MV: Il linguaggio è uno dei tanti aspetti per descrivere un personaggio. Anche se ci sono personaggi che parlano in italiano, ognuno ha il suo linguaggio preciso e si tratta di un indizio per capirli. Se avessi usato il dialetto per tutti si sarebbe molto appiattito, se lo uso solo per un personaggio diventa più potente, più descrittivo. L’ho sempre fatto per differenziare i personaggi ed eventualmente mostrare una certa discriminazione tra cittadini e provincialotti, nonostante siamo tutti veneti. Io non parlo dialetto, sono di sangue argentino e non mi è stato tramandato, lo capisco benissimo però mi sento un po’ distaccato dalla cultura veneta nonostante abbia sempre vissuto là. Mi sembra una cosa che va fuori dalla mia vita, quindi disegnare Lulu era raccontare il Veneto estremo, almeno secondo il mio punto di vista, era come visitare qualcosa che mi trovassi davanti e qualche volta mi ha fatto anche paura perché è diversissimo dalla mia natura.