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italia
2 Dicembre 2019

Chiudere gli altiforni. Far morire Taranto perché rinasca diversa

Monitor
(disegno di cyop&kaf)

La verità è che Taranto dovrebbe morire. Interrompendo così questa straziante agonia che va avanti da troppi decenni. Solo morendo – spegnendo una volta per tutte gli altiforni dello stabilimento industriale ex Italsider, la città potrebbe trovare la forza necessaria al suo rinascimento. Nella danza funesta e rituale odierna sembra di rivedere alcune dinamiche relative al fine vita, e a quello stesso accanimento terapeutico, ripetuto qui sulla sorte di una fabbrica e dei suoi lavoratori: pare che l’importante sia solo non staccare la spina, mai! Fa niente se la vita qui sia divenuta sempre più insostenibile: muoiono i bambini, vanno via tutti – chi può. La città è moribonda da decenni, bisognerebbe solo avere il coraggio di darle sto benedetto colpo di grazia. Certo, ci sarebbe un indubbio periodo di sofferenza e povertà: anche quando chiusero le miniere di carbone della Ruhr, la disoccupazione nella zona toccò percentuali molto alte. Ma oggi la grande area della Ruhr è stata riconvertita attraverso un processo di rigenerazione che ha fatto sorgere decine di teatri, centri culturali, musei del lavoro e dell’archeologia Industriale. Dunque nuovi posti di lavoro e una nuova economia decisamente più sostenibile. A Oberhausen, un gasometro datato 1929 è diventato un immenso spazio espositivo. A Essen la miniera di carbone Zollverein, un tempo la più grande del mondo, è oggi Patrimonio dell’Umanità Unesco. Spostandoci in Italia, vi è l’esempio della candidatura a Patrimonio dell’Unesco di tutta l’area industriale di Sesto San Giovanni, l’ex Stalingrando d’Italia divenuta (per alcuni periodi) attrattiva anche per la vicina Milano. Qui, il Carroponte della ex Breda Marelli è stato trasformato in uno spazio dove ospitare concerti e altri eventi.

La rigenerazione ha un suo senso compiuto quando è applicata lì dove sorgevano delle aree industriali, poiché è in questa tipologia di contesti che nasce tale pratica – come risposta all’intensivo sfruttamento del terreno, dell’aria e dell’uomo, uno sfruttamento tipico del mondo industriale fordista (per contro, quando si parla di rigenerazione dei centri storici, di quartieri popolari o addirittura di alcune campagne, bisogna essere decisamente più cauti).

Nel distretto della Ruhr, alla chiusura delle miniere, la disoccupazione arrivò all’undici per cento, a Taranto avverrebbe qualcosa di più pesante, visto che le percentuali indicano di già – a stabilimento industriale attivo – cifre più alte; ma solo così, affrontando il drammatico periodo di transizione che ne deriverebbe, si potrà seriamente pensare a una rinascita di questa meravigliosa città. 

La storia italiana ci ha insegnato quanto e come siamo capaci di essere grandi proprio nelle difficoltà e nella povertà più estrema: dall’indigenza del dopoguerra nasce il neorealismo nel cinema italiano, tuttora la nostra più alta espressione artistica di epoca moderna; tutta la più nota cucina popolare italiana è frutto dell’attenzione al non sprecare nulla, dalla frittata di maccheroni napoletana, all’utilizzo del nero di seppia, al lampredotto fiorentino, rimasugli e scarti e interiora divenuti emblema di italianità e di qualità, ma in principio utilizzati perché non vi era altro disponibile, la vena generatrice italiana dà il meglio di sé quando è affamata.

Taranto deve divenire ancora più  affamata di questo cambiamento. Solo così, affrontando il ciclo completo delle difficoltà necessarie alla sua rinascita, la città potrà tornare a inventarsi altra, diversa dalla sua sfortunata connotazione di epoca moderna. Solo una volta che l’Ilva (l’Arcelor Mittal) verrà chiusa definitivamente, si potrà iniziare a pensare a una nuova visione su cui progettare questo territorio. Tutta la gigantesca area dell’ex Italsider potrebbe offrire potenzialità uniche alla sfida della rigenerazione. I più noti (e magari anche quelli bravi) architetti internazionali gareggerebbero nel provare a re-inventare questo spazio. Probabilmente anche sui finanziamenti, l’Europa potrebbe aiutare, e poi si dovrebbe pensare a una candidatura Unesco anche qui – come nelle precedenti esperienze citate. Immagino un enorme parco di archeologia industriale vivo di negozi, alberi, locali notturni e altre attività, così da fondersi insieme alla città senza soluzione di continuità, con uno dei mari più belli del mediterraneo nelle vicinanze. Per esempio, sul web sono anni che circola una tesi di laurea di una studentessa, Alice Martemucci, che aveva già immaginato uno sviluppo di questo tipo nel 2013.

Sognare una visione differente è un diritto per questo territorio e anche se il risultato ultimato lo vedranno solo i figli dei figli, bisogna lavorare per loro, essere ancora una volta generosi. Taranto deve fare un ultimo grande sacrificio per liberarsi di questo enorme fardello. Fino a quando, invece, la fabbrica continuerà a boccheggiare, tutti gli sforzi non saranno incanalati nel cercare nuove identità per la città, ma rimarranno incagliati nell’estremo ed ennesimo tentativo di non far morire il morto. (fabrizio bellomo)

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