La fotografia di Antonio Biasiucci suscita emozioni sempre nuove, anche quando l’oggetto della sua indagine si presenta come l’occasione per un semplice esercizio di documentazione. E questo perché la sua ricerca – dalle immagini dei vulcani e dell’uccisione del maiale, fino ai lavori sulle vacche e sui volti dei migranti – è da sempre rivolta verso percorsi inediti, spazi di confine da lui esplorati con uno sguardo attento a quelle strutture elementari della materia in cui l’uomo delle origini scorgeva i segni del proprio destino. Il risultato di questa visione cosmica e primigenia dell’Essere, che parte dal rispetto assoluto per tutto ciò che abita il nostro pianeta, è un’immagine lontana dai consueti codici della finzione; un’immagine essenziale, sottratta a ogni forma di esteriorità, che permette di riconoscerci, di specchiarci, in qualche modo di riconciliarci col mistero della nostra esistenza.
Anche in questa mostra al Museo archeologico nazionale di Napoli (aperta dal 20 maggio al 18 luglio), che ha per titolo Codex (a cura di Gianluca Riccio) – dove in una grande sala l’artista ha collocato un polittico costituito da quaranta foto dei faldoni custoditi nelle stanze dell’Archivio Storico del Banco di Napoli – non si sfugge alla sensazione di trovarsi di fronte a espressioni simboliche (ed esoteriche) di una lontana alba del mondo, anche perché – come scrive Riccio nella presentazione al catalogo (edito da Contrasto) – in Biasiucci è sempre presente uno sguardo che partendo dalla nuda presenza degli oggetti e dei corpi “arriva a osservarli come una costellazione, una stratigrafia di segni primordiali”. Ma qui il fascino, soprattutto se si presta attenzione ai codici identificativi impressi sui libri – che si susseguono, apparentemente simili, senza un preciso ordine cronologico – risiede anche in una sorta di imprevedibile effetto di straniamento: nella sensazione, cioè, che quelle immagini improvvisamente riemerse dal buio, in fondo, siano brani di un vissuto a lungo depositati nella nostra memoria. Questa familiarità visiva si accresce quanto più ci avviciniamo alle singole foto, disposte sulla parete come in nicchie vuote scavate nel muro. Allora, quei numeri grigi, che racchiudono storie di moltitudini sottratte all’oblio, ci appaiono non più come registrazioni di atti commerciali e burocratici che non hanno alcun legame con la contemporaneità, ma come tracce, solchi, ferite ancora aperte nei corpi e nella vita degli uomini. L’impressione, insomma, è che non vi sia nulla di rassicurante in questo polittico ideato da Biasiucci, e che, sottotraccia, ogni immagine dei faldoni faccia pensare a una lacerazione, a una condizione umana ai margini della Storia.
Questo sguardo lento e profondo il fotografo di Dragoni ha sempre ricordato di averlo mutuato dal teatro di Antonio Neiwiller, soprattutto dalla partecipazione ai suoi laboratori intorno alla metà degli anni Ottanta, quando il regista e attore napoletano era impegnato in una ricerca intorno all’opera di Paul Klee. Biasiucci fotografò quei laboratori, ma la cosa più importante di quella esperienza fu che, attraverso lo sguardo dell’amico regista, egli maturò un diverso approccio all’attività creativa.
La corrispondenza con la poetica neiwilleriana diviene ancora più evidente nella stupefacente installazione da lui realizzata nella sede dell’Archivio Storico del Banco di Napoli a Palazzo Ricca, in via dei Tribunali. Qui, in una delle trecentotrenta camere in cui sono sistemati i faldoni, Biasiucci ha creato Moltitudini, una video-istallazione che sintetizza le diverse fasi della sua ricerca visiva: dai vulcani ai calchi dei migranti riprodotti in gesso dall’antropologo Cipriani negli anni Trenta e da lui ripresi nel Museo di antropologia di Napoli. Moltitudini, Biasiucci l’aveva proposta in versioni diverse anche in altre esposizioni. Indimenticabile quella ideata a Roma, all’Istituto nazionale per la grafica, per la mostra Sacrificio Tumulto Costellazioni; in quella occasione si incontrava l’opera quasi al termine di una sequenza fotografica che evocava Origine e Fine, un ininterrotto ciclo di vita, morte e rinascita.
Nello spazio dove ora Biasiucci ha creato la nuova istallazione (dove resterà in permanenza), si giunge dopo aver attraversato alcune stanze e un corridoio appena illuminato e tappezzato di faldoni. Nella camera di Moltitudini, domina ancora il buio, e l’occhio deve abituarsi un po’ alla volta a vedere quasi in assenza di luce, per poi scoprire che, in dissolvenza, sulla superficie dei libri, appaiono e scompaiono crani, rocce, pietre, volti di migranti con gli occhi chiusi, come sorpresi nel sonno. La sensazione è di non essere semplici spettatori di un evento artistico, ma ombre tra le ombre, spaesati attori di una drammaturgia per immagini che si sottrae al tempo e allo spazio e ci spinge a mutare il nostro sguardo, la nostra relazione con tutto ciò che è fuori di noi.
Moltitudini è forse è l’opera di Biasiucci che più da vicino evoca “l’altro sguardo di Neiwiller”; una messinscena di ombre, percorsa da una molteplicità di segni, di eventi e azioni povere; vengono in mente diversi suoi spettacoli, soprattutto Storia Naturale Infinita (“vorrei che fosse uno spettacolo senza inizio e senza fine, un flusso di sfumature, il fluire stesso del teatro, la scatola che si apre e si chiude, che ti fa vedere e ti nasconde”, ricordò il regista qualche giorno prima del debutto) e Fantasmi del mattino: anche quest’ultimo dedicato a Klee, l’artista svizzero che credeva nella possibilità dell’arte di mostrare ciò che si cela al di là del visibile, oltre l’apparenza fenomenica. In Fantasmi, quelle reiterate azioni degli attori che tanto colpivano Biasiucci, a un certo punto lasciavano posto all’immobilità e al vuoto di una sala avvolta nell’oscurità e nel silenzio; qui, lentamente, si scorgevano gli oggetti poveri della scena (fili, scale, ruote), mentre il cielo appariva punteggiato di piccole luci.
Il teatro visionario di Neiwiller era tutto in questo incantesimo notturno che cancellava lo schermo mimetico della rappresentazione. Lo sguardo di Biasiucci ha lo stesso respiro umano e universale. Come il teatro del suo mai dimenticato maestro è, insieme, meditazione sull’arte e allegoria della creazione: il momento più alto di un immaginario povero che riscrive in ogni momento l’alfabeto della vita. (antonio grieco)
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