
Un tempo passava a Torino – fra la Dora e la Stura – una linea ferroviaria che raggiungeva lo scalo merci di Vanchiglia. Le rotaie sono ormai abbandonate e attorno cresce una natura di ritorno, fitto intrico di sterpi e robinie. All’incrocio con corso Giulio Cesare questa fascia di verde urbano s’insinua sotto un cavalcavia: qui l’amministrazione immagina una fermata metro della linea a venire. A pochi metri un palazzo di cinque piani. Al piano terra, accanto al negozio d’una parrucchiera, il portone sfondato è sempre aperto; oltre iniziano le rampe di scale circondate da pareti umide e scrostate. Tutto lo stabile appartiene a un potente impresario della città.
È inizio ottobre, all’alba. Il sole non è ancora sorto, il giro dell’orizzonte è coperto dai palazzi. Sembra una mattina ancora estiva e da settimane non piove sulla città polverosa. Accanto al portone scassato c’è un bar aperto ad ogni ora del giorno e della notte, al bancone un uomo ordina un caffè e una brioche: aspetta l’ufficiale giudiziario. Oggi è il giorno del suo sfratto. Ancora non ha bevuto il caffè, ecco apparire in fondo alla strada una camionetta dei carabinieri, poi una della polizia. Vengono dal centro e parcheggiano dall’altra parte della strada. Ora la tazzina è vuota e la giornata è cominciata davvero.
Da auto anonime scendono sei poliziotti in borghese. Fuori dalle camionette si schierano celerini pronti ad affrontare una sommossa, hanno gli scudi e si muovono in due squadre. Sono vicini al portone del palazzo che appartiene allo speculatore, alzano gli scudi e si schierano attorno all’ingresso. Insieme all’uomo sotto sfratto ci sono tre o quattro solidali. Dice un dirigente ai poliziotti con i manganelli: «Facciamo una bolla qua davanti». Obbediscono. «Dai ragazzi, facciamo un semicerchio. Qua davanti deve restare sempre una squadra: vi alternate». Il dirigente muove l’indice a destra e a sinistra lungo un immaginario asse orizzontale. Un celerino è molto serio e indossa dei guanti che lasciano nude le falangi delle dita.
Ora un altro agente in borghese dice con un sorriso: «Questo palazzo è marcio». Si guarda intorno, i capelli grigi gli cadono sulle spalle. «Marcio, a partire dal proprietario». Suoi colleghi entrano ed escono dall’androne con sicuri sorrisi. Adesso gli scudi sono poggiati a terra, formano una barriera che si apre solo per far passare abitanti assonnati, impassibili, impiegati in cooperative affiliate alle compagnie della logistica. Esce dal portone un lavoratore con la divisa di GLS. L’uomo sotto sfratto attende seduto su un gradino l’arrivo dell’ufficiale giudiziario, oggi ha chiesto il permesso dal lavoro presso un centro di smantellamento dei rifiuti. Il dirigente della polizia chiarisce: «Siamo il terminale di una procedura»; poi ripete una frase antica: «Noi eseguiamo solo gli ordini, qui».
L’autunno è nuovo, inconsueto: questo ora è l’approccio agli sfratti in città. Giunge infine l’ufficiale giudiziario con la cartellina stretta al petto. S’avvicina anche l’avvocato del proprietario con un fresco taglio di capelli e il volto impassibile, dietro di lui il fabbro. Salgono al primo piano per redigere l’inventario degli oggetti e cambiare la serratura. Sono le nove appena, lo sfratto è eseguito, ma la celere è ancora schierata per dare tempo al fabbro di eseguire il suo compito. Oltre la strada, da più di due ore, un carabiniere da solo fa la guardia alla camionetta. Ora alza la voce il dirigente di polizia: «Ragazzi, abbiamo finito. Andiamo a prenderci un caffè?». Ecco camminano verso il bar cinque agenti in borghese e l’ufficiale giudiziario, assieme misurano i passi mentre s’alza in cielo la luce del mattino. (dora griot)
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