
Per capire dove sta andando Bologna bisogna guardare al Tecnopolo, quella gigantesca area che sta sorgendo nell’ex Manifattura Tabacchi di via Stalingrado che, oltre al Supercomputer Leonardo, ospiterà infrastrutture di calcolo avanzate, come il Centro Europeo per le Previsioni Meteorologiche a Medio Termine (ECMWF) e diverse aziende che operano nel settore dei big data, della scienza computazionale e dell’intelligenza artificiale. Una zona dove sono già presenti alcuni dei principali operatori economici e finanziari della città (Hera, Unipol, Bologna Fiere, Legacoop, Confcooperative, Unioncamere e altri) e dove si concentreranno moltissimi degli investimenti pubblici e privati – si parla di miliardi di euro – che arriveranno in città.
Nell’idea della politica locale e regionale, il Tecnopolo segnerà il passaggio dalla City of Food – senza rinunciare al food – alla City of Data (o “città della conoscenza”), aprendo le porte a nuove fonti di reddito rappresentate dai grandi capitali delle aziende tecnologiche e dai professionisti altamente qualificati che ci lavoreranno, molti dei quali troveranno casa in un nuovo quartiere presentato alcuni mesi fa: il TEK, acronimo che sta per Tecnologia, Entertainment, Knowledge. Il modello esplicitato è quello della Silicon Valley e si porta dietro anche tutti i rischi annessi: gentrificazione, aumento esponenziale dei valori immobiliari e concentrazione della ricchezza.
L’obiettivo primario è, ovviamente, l’attrattività. Qualche giorno fa, il vicepresidente della regione Emilia-Romagna, Vincenzo Colla, ha parlato delle trattative in corso i con grandi nomi della tecnologia, tra cui Cisco e, soprattutto, Nvidia, gigante dell’AI e nuova star delle Borse. “Nvidia – ha affermato sorridendo Colla – fa tremila miliardi con ventimila persone, noi non li facciamo di Pil con ventitré milioni di occupati. Queste sono le bestie con cui abbiamo a che fare. Sarebbero capaci di comprarsi tutta l’Emilia-Romagna, non solo una palazzina qui dentro”.
Se Colla sorride, c’è poco da stare sereni. La sua battuta rivela una verità inquietante: l’economia digitale genera enormi profitti, ma pochissimo lavoro, e quei profitti finiscono spesso nelle mani di pochi soggetti che – com’è noto – pagano pochissime tasse.
Nel progetto del Tecnopolo, colossi come Nvidia e Cisco dovrebbero insediarsi in una torre da ottanta milioni di euro, una cifra che al momento la Regione non ha. È uno dei motivi per cui lo stesso Colla e il sindaco di Bologna, Matteo Lepore, a marzo scorso sono volati al MIPIM (Marché International des Professionnels de l’Immobilier) di Cannes, considerata da molti una fiera della speculazione edilizia, per cercare finanziatori tra fondi immobiliari e grandi gruppi d’investimento.
Allo stesso tempo, Bologna si confronta con un problema abitativo sempre più grave. La risposta istituzionale più recente è la Fondazione per l’Abitare, che sostituirà l’Agenzia Metropolitana per l’Affitto (AMA), ritenuta inefficace. La Fondazione avrà due obiettivi principali: 1) incentivare i proprietari di case sfitte (circa quindicimila) ad affittarle a canone concordato, attraverso agevolazioni e garanzie; 2) aiutare la cosiddetta fascia “grigia” della popolazione, ovvero chi ha redditi troppo alti per l’edilizia pubblica tradizionale, ma troppo bassi per sostenere un affitto, presentandosi sul mercato come un soggetto che prova a scalfire il monopolio privato delle locazioni, grazie anche a uno stock di abitazioni pubbliche di quattrocento unità iniziali, costituito in gran parte dai co-housing comunali di nuova costruzione.
Anche prendendo per buone le intenzioni alla base della creazione della Fondazione – nonché quelle dei sindacati, associazioni ed enti del terzo settore che la sostengono –, sorgono molte perplessità. Innanzitutto, la scelta della forma giuridica privata: sebbene questa permetta una maggiore flessibilità nella gestione, comporta anche il rischio di un controllo meno trasparente e più suscettibile agli interessi dei futuri e possibili soci privati, soprattutto qualora dovessero cambiare gli equilibri politici con le destre pronte a sfondare tutte le porte già aperte. Chi ci assicura, quindi, che nelle mani sbagliate uno strumento del genere non possa trasformarsi in un rischio per lo stesso patrimonio pubblico di cui oggi lo si dota? Inoltre, il fallimento dell’Agenzia Metropolitana per l’Affitto, che in passato aveva cercato allo stesso modo di affrontare il problema degli immobili sfitti, solleva ulteriori dubbi sulla capacità della nuova fondazione di avere successo. Sebbene questa disponga di risorse superiori, pari a cinque milioni di euro, sembra al momento mancare una strategia davvero incisiva per affrontare le cause principali della crisi abitativa. Infine, l’ambizione è alta, ma l’impatto che la Fondazione potrà avere sulla città appare limitato. Con poche centinaia o migliaia di alloggi a canone concordato, è difficile credere che si possa riequilibrare un mercato che ormai è fuori controllo. A Bologna, infatti, ci sono ancora circa cinquemila persone in attesa di una casa popolare (dati Acer), mentre la pressione sugli affitti è in costante crescita.
Il dubbio è, inoltre, che come nell’esperienza di un’altra fondazione creata dal comune di Bologna, la Fondazione Innovazione Urbana, nata per gestire i processi partecipativi e mediare le decisioni sullo sviluppo del territorio (si veda al riguardo l’articolo di Piras e Proto sulla rivista Tracce Urbane: “Spazi di apprendimento o strumenti di sussunzione neoliberale? Il caso della Fondazione per l’Innovazione Urbana e il ruolo dei processi partecipativi nella città di Bologna”), anche la Fondazione per l’Abitare, portandosi dentro parte dei movimenti e associazioni che si battono per il diritto alla casa, finisca per depotenziarne la carica conflittuale in un’ottica di cooptazione.
In sintesi: Bologna, al pari di altre, è una città che spera di affrontare questione della casa mettendo sotto il tappeto il modello di sviluppo urbano, prima causa del tutto. Da un lato progetti come quello del Tecnopolo raccontano che non c’è nessuna intenzione di rinunciare al paradigma della crescita continua e ai suoi rischi legati all’aumento dei valori immobiliari; dall’altro, piuttosto che regolamentare il mercato privato con misure radicali (tetto agli affitti, tasse sullo sfitto, limiti alle piattaforme, ecc.) si preferiscono timidi – e rischiosi – palliativi come la Fondazione per l’Abitare trasferendo, per di più, una parte di alloggi pubblici con tutti i rischi del caso, primo tra tutti la privatizzazione del patrimonio. Non è uno scenario inevitabile, ma se ne parla ancora troppo poco. (salvatore papa)