Giovedì 30 maggio, 5:30 circa, Lund, Svezia. I corvi e le gazze hanno smesso di agitarsi. Finalmente si può riposare al Palestinagard, il camp che da sedici giorni occupa pacificamente il prato di fronte all’ufficio del rettore dell’Università di Lund. In questo stesso parco, pochi mesi fa, abbiamo assistito all’arrivo di Emmanuel Macron, accolto con grandi favori e presidenziali formalità dalla Lund University, in un evento organizzato per rafforzare il rapporto di intesa e gli accordi bilaterali tra Francia e Svezia, da poco entrata nella Nato.
Anche in Svezia, che gode di buona fama a livello internazionale per le politiche migratorie e l’apertura dei suoi confini, l’aria tira sempre più a destra. Nelle ultime elezioni nel 2022, i Democratici Svedesi, partito nazionalista e xenofobo, sono saliti al secondo posto per numero di voti, ottenendo il 20,2% e appoggiando la nuova coalizione di governo di centrodestra dall’esterno. Un governo che non ha mai condannato l’operato militare di Israele. Il primo ministro si è sempre appellato al diritto di Israele di difendersi e nell’ottobre 2023 il ministero della difesa ha firmato un accordo valevole dieci anni per centosettanta milioni di dollari con Elbit System, azienda che fornisce armamenti e sistemi di rilevamento digitali alle forze di difesa israeliane.
Nonostante questo, durante gli ultimi dodici mesi nelle principali città svedesi migliaia di cittadine e cittadini hanno attraversato le strade in dimostrazioni di solidarietà con il popolo palestinese, al suono di Befrija Palestina e Boykotta Israel. A Malmö, che nel 2015 ha vissuto una “crisi dei rifugiati” con grande partecipazione e mobilitazione della cittadinanza e dei movimenti sociali in nome di Refugees Welcome, ogni domenica, a partire dall’ottobre 2023, in migliaia hanno marciato per le strade del centro. A fare notizia sono state poi le manifestazioni in cui Greta Thunberg, l’attivista svedese dei Fridays for Future, ha ripetutamente sottolineato il proprio impegno per la causa palestinese, per il quale di recente è stata arrestata durante un tentativo di occupazione del rettorato dell’Università di Copenhagen. Un altro momento significativo è stato la mobilitazione organizzata a Malmö in occasione della fase finale dell’Eurovision. Piú di recente, un’attivista palestinese si è vista negare la richiesta di asilo dopo aver subito una denuncia in seguito ad azioni di protesta pacifica degli studenti della Chalmers University, a Goteborg. Non è dunque difficile trovare episodi di repressione del dissenso, in cui si intrecciano politiche securitarie e dispositivi polizieschi.
Quella mattina di maggio a Lund intorno al camp si assiste a un improvviso accumularsi di veicoli della polizia e agenti delle forze dell’ordine. La polizia è stata chiamata dalla stessa università, poichè il mattino seguente la cerimonia di premiazione dei dottorandi prevede una marcia trionfale, dalla cattedrale al palazzo dell’università, con tanto di cannone per sparare qualche colpo a salve, rinsaldando le vecchie tradizioni che legano le istituzioni accademiche alla polvere da sparo e agli armamenti. La parata in questione sarebbe dovuta transitare proprio nel parco dove si stava tenendo il camp.
Sapevamo dell’imminente evento celebrativo e dell’atteggiamento intransigente del vice-chancellor Erik Renström, e all’interno del camp c’era il sentore che da un momento all’altro la situazione potesse prendere una brutta piega. Dietro l’intervento delle forze di polizia si nasconde un’istituzione che non ha fatto concessioni alle richieste degli studenti, i quali da mesi chiedono il boicottaggio accademico ed economico di Israele. L’unica occasione in cui il rettore ha incontrato gli studenti, era terminata con l’intervento della polizia che trascinava le due rappresentanti del Palestinagard fuori dall’edificio con brutale violenza.
Nonostante l’assenza di risposte, il camp è rimasto in piedi, una struttura stabile, un esperimento politico e sociale importante in una città in cui l’attivismo politico e i luoghi di socialità non abbondano. Il camp è riuscito a mettere assieme gli attivisti pro-Palestina di Malmö con gli studenti di Lund, includendo ricercatrici e ricercatori. L’organizzazione di turni di pulizia, cucina, sorveglianza è coordinata dalle assemblee e dalla volontà degli attivisti di gestire in autonomia ogni aspetto del vivere quotidiano. Anche presenti un’area libri, un’aula studio con connessione wifi, una zona per pregare e una zona dedicata alla creatività, in cui nascono striscioni e magliette a tema. Il camp di Lund non è stato un caso isolato: gli accampamenti studenteschi sono stati organizzati nelle principali città del paese scandinavo, tra cui Stoccolma e Goteborg.
Nell’uggiosa mattina del 30 maggio, da una decina di camionette iniziano a scendere i poliziotti. Alcuni di loro gironzolano tra le tende: due poliziotte mi si avvicinano mentre cerco di chiudere il mio sacco a pelo freneticamente, e mi parlano in svedese, senza accertarsi del fatto che io non le capisco. Altri iniziano a circondare l’area con del nastro bianco e blu, attaccandolo agli alberi, creando un poligono intorno alle tende. I megafoni annunciano che chi non lascerà l’area entro venti minuti sarà sospettato di aver commesso un crimine. È una pratica che la polizia svedese è autorizzata a utilizzare per intervenire in luoghi dove si manifesta “disordine” sociale, una sorta di stato di eccezione temporaneo e arbitrario. Alcuni attivisti lasciano l’area, e in breve tempo altre arrivano per supportare, documentare e raccogliere i nostri averi e portarli al sicuro.
C’è tensione, la polizia continua a moltiplicarsi. Chi decide di non lasciare l’area si reca al centro del camp e si siede per terra, tenendosi stretti e improvvisando una barricata per proteggersi. La polizia decide di irrompere, sposta tutto e inizia a prelevare uno a uno gli attivisti, per la maggior parte trascinandoli come sacchi in un’altra area del parco. Io mi alzo e cammino, scortato da due agenti. Vengo appoggiato a una macchina, e un terzo agente in borghese si avvicina per chiedermi le generalità. Accetto di dargli un documento. Alcuni decidono di non farlo, non c’è una strategia comune.
Mi informano che sono in stato di arresto e mi fanno sedere per terra, dietro un altro compagno, con le gambe aperte e rivolti nella stessa direzione. Dividono arbitrariamente maschi e femmine incastrando i corpi in file ordinate, finchè non diventiamo troppi e ne creano altre poco distanti. Alcuni vengono tenuti da soli, non capisco con quale criterio. Scoprirò in seguito che molte cose sono difficili da capire a causa della disorganizzazione della polizia stessa, che comporta una grande arbitrarietà nel trattamento degli attivisti.
In questo caso chi ha fornito le proprie generalità è stato rilasciato immediatamente. Non è il mio caso. Fuori dall’area “recintata” intanto si alza il volume della protesta. Si iniziano a intonare i canti che caratterizzano l’ondata di proteste contro il genocidio in atto a Gaza. Alcuni cori prevedono un botta e risposta, che in questa situazione avviene tra il fuori e il dentro, tra chi è a piede libero e chi è per terra e sotto arresto. Ai due lati si accumulano persone che arrivano a dare sostegno e documentare. Finchè a un certo punto la tensione esplode. Dal prato non ci è possibile vedere cosa succede (lo scoprirò la sera stessa tramite Instagram), ma la polizia aggredisce con violenza alcuni attivisti perchè avrebbero lanciato una bottiglia; come le immagini dimostrano, si trattava di un fiore.
In Svezia, rispetto a quanto accaduto in altri paesi europei, tra cui spicca la Germania, la repressione della polizia durante le manifestazioni pro-Palestina era stata blanda. La situazione ha visto un sensibile cambiamento a maggio, per una serie di eventi concomitanti che hanno contribuito a una escalation: l’avvicendarsi di camp studenteschi, che hanno seguito un modello di protesta partito dai campus universitari statunitensi e che si è diffuso in Europa, e lo svolgersi dell’Eurovision proprio a Malmö, tra il 9 e l’11 maggio. In quei giorni hanno fatto scalpore le immagini di poliziotti che, con i pastori tedeschi al guinzaglio, reprimevano in maniera brutale le proteste degli studenti all’Università di Stoccolma. Allo stesso tempo a Malmö la polizia ha eseguito i primi arresti al di fuori della sede della fase finale dell’Eurovision, contro cui hanno protestato dodicimila manifestanti.
Molti rimangono a terra nel prato in attesa di capire cosa stia per succedere, senza acqua nè cibo, con uno stress non semplice da gestire. A rendere il tutto più assurdo, il vice-chancellor entra ed esce dall’edificio a pochi passi da noi, dando un’occhiata fugace alla situazione paradossale, che vede studenti e studentesse dell’università che gestisce circondati da ormai almeno un centinaio di agenti di polizia che lui stesso ha chiamato. La sua comparsa è accompagnata puntualmente da cori di protesta. Le ore passano lentamente. Dopo ore, alcuni di noi vengono fatti alzare, fotografati e accomapagnati sulle camionette a due a due.
Prima di salire a bordo un agente mi chiede se sono mai stato su una macchina della polizia e se so come funziona. Vedendo due posti a sedere liberi, la logica mi spinge a pensare che siano i sedili in cui mi devo accomodare; ma quando chiedo conferma mi viene detto che i nostri posti sono a terra, nel pavimento del furgone, seduti senza cinture in mezzo alle gambe dei poliziotti. Il viaggio è spiacevole, le gambe mi tremano, non so cosa stia per succedere, cerco il contatto con V., le tocco le caviglie, l’unico movimento che riesco a compiere, e le stringo per un po’. Arrivati alla stazione di polizia di Malmö, le nostre strade si separano. Vengo fatto sedere in una stanza in cui mi tolgo tutti i vestiti e consegno tutto quello che ho addosso. Dopo una decina di minuti vengo portato in una cella in isolamento, dove mi devo denudare di nuovo davanti a due agenti. Non so dove sono le altre, non so per quanto a lungo dovró restarci, ma sono talmente esausto che mi stendo sul materassino e provo ad addormentarmi. Passa qualche ora, finchè lo stesso poliziotto in borghese che mi aveva chiesto le generalità la mattina mi domanda se ho intenzione di identificarmi, l’unica via per essere rilasciato. L’alternativa è la detenzione dalle settantadue ore fino alle due settimane (informazione peraltro falsa). Decido di dichiarare la mia identità, cosa che avevo già fatto nel momento dell’arresto e che sorprende gli stessi agenti; ma la polizia sembra agire in maniera caotica, come dimostra la diversità di trattamento subita dalle persone arrestate quel giorno. Dopo un’ora vengo accompagnato in un’altra stanza dove si svolgono gli interrogatori. A quel punto chiedo un avvocato d’ufficio e di non essere interrogato senza. Mi vengono presentate delle pratiche con date per future interrogazioni e un eventuale processo, tra luglio e agosto, dopodichè vengo rilasciato.
La sera ci ritroviamo tutti in uno spazio a Lund, in cui alcune attiviste organizzano ogni settimana una People’s Kitchen, e quella sera ne hanno improvvisata una all’aperto, nel giardino sul retro, per accogliere chi viene rilasciato. Il disgusto e la rabbia nel vedere le camionette della polizia anche fuori da questo spazio è forte. Ritrovo alcune persone che sono state portate in carceri differenti del sud della Svezia, e rilasciate come me durante la giornata. Scopro che non tutti sono presenti, alcuni probabilmente hanno deciso di non dichiarare le proprie generalità e sono ancora in carcere, e la polizia non dice dove. Una compagna ci rimarrà per tre giorni, finchè, dopo aver comunicato con l’avvocato, deciderà di cedere.
I giorni successivi sono emotivamente impegnativi. Lo stress accumulato durante quella giornata si traduce in stati d’ansia e incubi. Essere circondato costantemente da persone che continuano a parlarne, anche per cercare di capire il da farsi e organizzarsi per le conseguenze legali, non mi aiuta, e piú che sentire il supporto sento un senso di soffocamento.
Il resto, purtroppo, è in divenire. La data preliminare del mio processo, il 14 agosto, si è ufficializzata senza che io abbia ricevuto alcuna comunicazione. Sono stato contattato da un’attivista e un avvocato il giorno prima. Mi hanno chiesto di firmare un documento in cui delego all’avvocato la mia voce in tribunale, ma non essendo riuscito a parlarci, l’avvocato ha chiesto e ottenuto un rinvio, mentre io mi sono preso una multa di trecentocinquanta euro per non aver presenziato. Il tutto avviene, per me, con grande confusione. Non vivo più in Svezia e i miei contatti con chi è coinvolto sono sporadici; prima di lasciare il paese avevo deciso di chiedere alla polizia una data in anticipo per l’interrogatorio, che mi era stato concesso, anche se senza un avvocato d’ufficio. Avevo deciso di dichiararmi colpevole, accettando una multa come conseguenza per l’accusa per cui sono denunciato, ovvero “non aver rispettato gli ordini della polizia in una manifestazione non organizzata”.
Avevo anche chiesto alla polizia se fosse necessario essere presente in tribunale dopo aver “accettato” la multa e l’accusa, e mi era stato detto di no. Ero convinto di essermela cavata, sapendo che non sarei potuto tornare in Svezia sia a luglio che ad agosto. Mi ritrovo invece con una nuova multa e una nuova udienza a dicembre. La repressione agisce anche con le lettere, e con il prolungarsi nel tempo dei casi, tenendo gli attivisti in un limbo che disincentiva la mobilitazione. Intanto alcuni processi sono già avvenuti; finora tutte le persone arrestate e incriminate, una trentina, sono state condannate e dovranno pagare una multa, ragione per cui il movimento sta organizzando una raccolta fondi.
Per quanto riguarda le richieste del movimento, l’Università di Lund non si è impegnata in nessun tipo di disinvestimento (conquistato dal camp all’università di Copenhagen), nè boicottaggio accademico. Il vice-chancellor ha addirittura scritto un articolo sul suo blog personale in cui in nome della libertà accademica e dell’importanza della ricerca scientifica difende l’operato della polizia, che ha consentito lo svolgersi della cerimonia di premiazione dei dottorandi, un evento “fondamentale per il bene della scienza”. Un altro argomento utilizzato dall’istituzione universitaria è quello della sua imparzialità e neutralità in nome dei valori della ricerca. Sul sito della Lund University si trova addirittura una pagina con le FAQ’s riguardanti “la guerra tra Israele e Hamas”, in cui si afferma che non è compito dell’università occuparsi di questioni di politica estera.
Tuttavia, centododici membri della facoltà di scienze sociali, ricercatrici e professori, hanno scritto e firmato una lettera in cui denunciano l’operato della polizia e la complicità dell’università. Anche in un paese che si vanta della sua socialdemocrazia e della sua capacità di mantenere il livello del conflitto sociale basso, la violenza poliziesca in pochi istanti può manifestarsi e colpire. Intanto, Israele continua impunemente a devastare territori occupati e non, con il lasciapassare, quando non l’appoggio esplicito, delle democrazie occidentali e delle loro istituzioni. È passato un anno dal 7 ottobre, e abbiamo ormai esaurito le parole per esprimere il dolore e il senso di ingiustizia nel vedere quello che accade a Gaza, in Cisgiordania, e ora in Libano. La solidarietà e la mobilitazione invece non devono e non possono esaurirsi. Un anno fa come adesso, occorre contestare duramente i governi che appoggiano il genocidio in corso. Non possiamo fare nulla di meno, e forse dobbiamo fare anche di piú. (francesco dal cerro)