
Deadweight è il titolo del film di Axel Koenzen, presentato al Torino Film Festival nel 2016. La storia ruota intorno alla Brugge, una nave portacontainer di trentacinquemila tonnellate comandata da un capitano finlandese all’apice della sua carriera. Giunti in anticipo al porto di Savannah (Stati Uniti), la nave viene caricata in fretta dai portuali insieme all’equipaggio in modo tale da poter ripartire in tempo e ridurre i costi della sosta in porto, ma il marinaio filippino James è coinvolto in un incidente mortale durante il lavoro semi-legale di rizzaggio dei container. Il self-handling infatti è la pratica sempre più comune di far svolgere il fissaggio delle merci sulle navi ormeggiate nei porti ai marinai degli equipaggi. Si tratta di operazioni pericolose – in inglese lashing, unlashing and securing – che possono essere svolte solo da lavoratori con esperienza e formazione. Inoltre, sebbene il self-handling sia in aumento, il rizzaggio e derizzaggio delle merci sulle navi è un lavoro che tradizionalmente e storicamente spetta ai portuali, non ai marinai. Anche nell’accordo collettivo dell’ITF (International Transport Workers’ Federation) si afferma che “le operazioni di rizzaggio e derizzaggio della merce a bordo delle navi sono un lavoro dei portuali, e all’equipaggio non bisognerebbe chiedere di realizzare questo compito – a meno che non ci sia un accordo preliminare con il sindacato. Compagnie marittime, capitani e ufficiali di bordo che chiedono ai marinai di condurre operazioni di lashing e unlashing senza permesso violano questo contratto”.
Nel film del regista tedesco Axel Koenzen si capisce chi comanda veramente la nave, quanto sia duro il lavoro di bordo, quali sono i rapporti tra regimi e condizioni di lavoro tanto contigui quanto distinti. Il capitano e il secondo ufficiale, una donna rumena, dovranno affrontare le conseguenze degli ordini imposti all’equipaggio per ripartire in fretta a causa delle pressioni commerciali della compagnia marittima. Nel porto di Rotterdam i lavoratori portuali e il sindacato boicottano la nave per via dell’incidente mortale, rifiutando di scaricare i container a terra. Nella situazione di stallo che ne consegue il capitano è intrappolato tra due fuochi, e mentre il secondo ufficiale è costretto a chiarire le dinamiche dell’incidente, lui fa i conti con la sua coscienza, le contraddizioni e la responsabilità dell’ennesima tragedia a bordo di una nave.
Nonostante la scarsa distribuzione in Italia, abbiamo visto il film di Axel, apprezzandolo tanto per la sensibilità rispetto a queste tematiche quanto per lo sguardo a esse rivolto. Per saperne di più su questo piccolo capolavoro sono state poste alcune domande al regista. Quella che segue è l’intervista tradotta dall’inglese.
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Raccontaci del lavoro preliminare del tuo film. Com’è emersa l’idea di affrontare questo argomento? Com’è nata la volontà di interessarsi a questo soggetto?
È una storia lunga. Mio zio era capitano su una petroliera tra gli anni Settanta e Ottanta, quindi sono entrato in contatto con il mondo marittimo molto tempo prima di questo film. Essendo interessato al concetto di libertà nel mare e all’idea romantica che ne deriva, ho realizzato una serie di interviste con lui quando era ancora vivo. Poi ho approfondito la ricerca dell’argomento, e quando ho fatto il primo viaggio su una portacontainer ho capito che la mia idea personale e la realtà a bordo non erano proprio la stessa cosa: in qualche modo il nodo gordiano doveva essere sciolto…
Sembra che il soggetto del tuo film non sia stato molto rappresentato, almeno da questa prospettiva. L’unico lavoro che ricorda il tuo film è il documentario di Allan Sekoula Forgotten space, con le dovute differenze.
Ho apprezzato molto il documentario di Allan Sekoula su questi temi, e anche la sua fotografia. Ho visto molti film, certo, ho letto alcuni studi etnografici sull’argomento, romanzi, eccetera. È diventato molto chiaro già in una fase iniziale dello sviluppo del film che non potevo e non volevo cercare di prendere la prospettiva dei marinai filippini, anche se il loro destino mi ha scosso di più durante il mio primo viaggio di ricerca su una portacontainer. Siccome l’argomento del film si è spostato verso la questione della responsabilità, ho deciso di assegnare la mia prospettiva (europea) al personaggio principale del film, il capitano finlandese. Soprattutto nel montaggio abbiamo dovuto trovare un equilibrio tra la fiction, l’arco del personaggio principale nella storia e le parti più documentarie, che rappresentano il mio interesse per le condizioni di lavoro nel secondo e terzo mondo, così come le condizioni a bordo delle navi.
Potresti spiegare la scelta di questo titolo ai non addetti ai lavori? Qual è il significato di Deadweight?
Per definizione significa: “portata lorda” (noto anche come peso morto, abbreviato in DWT, D.W.T., d.w.t., o dwt) o tonnellate di portata lorda (TDW); è la misura di quanta massa una nave può portare o può trasportare in modo sicuro; non include il peso della nave. DWT è la somma del peso del carico, del carburante, dell’acqua dolce, dell’acqua di zavorra, dell’approvvigionamento, dei passeggeri e dell’equipaggio. Vorrei lasciare l’interpretazione al pubblico, ma c’è una connessione tra il titolo, la definizione di tonnellaggio di peso morto nel mondo marittimo di per sé, il conflitto del protagonista principale con la responsabilità e la morte del marinaio filippino durante una procedura di lavoro semi-legale…
I dettagli che sei stato capace di mostrare nel film suggeriscono una profonda conoscenza delle dinamiche di lavoro nella catena marittimo-logistica, così come alcune contraddizioni note agli addetti. Come hai sviluppato la sceneggiatura?
Fare un film su un sistema così complesso richiede una ricerca seria. Mi sono avvicinato allo sviluppo del copione piuttosto come a uno studio etnografico, che ha compreso diversi viaggi sulle portacontainer, girando un documentario solitario di ricerca per il processo di scrittura del copione e intervistando le persone legate a questo mondo sia sul lato banchina che sul versante del mare. Dopo un po’ si conosce l’habitat. In una fase molto preliminare sono stato ispirato dalla disputa nei porti australiani del 1998 e dal boicottaggio di solidarietà della nave Columbus Canada in nord America. In una fase successiva ho trovato dei report sul caso di Glenn Cuevas, un marinaio filippino che ha avuto un incidente mortale durante una procedura illegale di derizzaggio dei container su una nave battente bandiera in Antigua e Barbuda, ormeggiata nel porto di Rotterdam. Inoltre avevo approfondito nozioni provenienti da letture come il Seestücke di Friedrich Schiller, Des Espace Autres di Michel Foucault (la nave come ultima eterotopia) e Millepiani di Deleuze e Guattari (spazio liscio contro spazio striato). Questi testi servivano come ispirazioni piuttosto astratte.
Nel tuo film affronti il problema delicato del self-handling. Hai ricevuto il supporto dei sindacati?
Apparentemente sì. I sindacati dei trasporti a Rotterdam e ad Anversa e i loro rispettivi rappresentanti dell’ITF sono stati molto disponibili nel corso della ricerca. Loro sono consapevoli che il lashing illegale è il maggior problema dentro e fuori ai porti. Tuttavia gli interessi dei lavoratori sindacalizzati in banchina e i marinai non sindacalizzati non sono necessariamente gli stessi.
Ci puoi dire qualcosa sul periodo delle riprese?
Abbiamo girato il film su una nave di proprietà tedesca per un totale di sei settimane, imbarcandoci a New York, attraversando l’Atlantico fino al Marocco, girando intorno al Mediterraneo e attraversando nuovamente l’Atlantico verso New York. Dopodiché abbiamo girato per una settimana a Rotterdam e una settimana nelle Filippine.
Hai ricevuto anche il supporto dell’armatore o della compagnia marittima? Loro ti hanno dato la possibilità di girare su un set del genere (la nave), ma allo stesso tempo loro hanno una grande responsabilità rispetto ai problemi affrontati nel film.
Abbiamo avuto il supporto di un armatore di Amburgo, che ha molto creduto in noi sin dall’inizio sul fatto che questo non sarebbe stato un film che voleva polarizzare e semplificare, ma voleva mostrare la vita e il lavoro in mare in maniera autentica. Io non ho mai avuto l’intenzione di puntare il dito su entrambi i lati dei gruppi d’interesse, ma ho concepito la nave piuttosto come una metafora della complessità delle condizioni di lavoro in un mondo capitalistico post-moderno.
Sei stato capace di mostrare la vita di bordo, niente a che vedere con l’immaginario idealizzato sulla vita dei marinai. Tu mostri le condizioni di lavoro dei marittimi filippini, le operazioni difficili di rizzaggio e derizzaggio dei container, il ruolo del capitano, le pressioni, le procedure d’ormeggio. Ogni cosa è affrontata con uno sguardo che rispetta i ritmi reali. In che modo hai prestato attenzione al tempo?
È stato importante per me comunicare un’esperienza molto personale e soggettiva a bordo della nave al pubblico. Di conseguenza il montaggio e il disegno del suono sono stati concepiti secondo questa esperienza piuttosto “levitante”, essendo stati per mesi a bordo, con pochi e sparuti rapporti verso l’esterno, i cari a casa o altrove. A volte ci si sentiva come in un chiostro, un convento, dove solo i pasti servono da punto di riferimento per il passare del tempo. Parte delle professionalità dell’equipaggio è in grado di affrontare questo riferimento mancante. Il “mondo esterno” mette pressione costante su di te, e questa pressione potrebbe cominciare a sembrare surreale.
Una domanda sulla scena dei portuali nel bar a Rotterdam, che mostra anche il trailer. A un certo punto, uno di loro afferma: «Fanculo il filippino! Tutti parlano del filippino. Anche noi dobbiamo fare il nostro lavoro. Io devo pagare le mie bollette». Puoi dirci qualcosa in più su questa scena?
Ognuno ha i propri interessi. Quelli sulla banchina potrebbero essere diversi da quelli in mare.
Il marinaio James è mandato a rizzare i container per fare in fretta, la compagnia marittima dice che il sindacato ha dato il permesso, l’equipaggio si accorda a dichiarare il suicidio, il capitano deve fare i conti con la propria coscienza. Chi è il protagonista reale nel tuo film? Chi è il colpevole?
Come ho detto prima la mia intenzione non è quella di puntare il dito su qualcuno. Non sono interessato a una critica generale del sistema, ma piuttosto alla nozione di responsabilità personale, a quanto i vincoli reali siano stringenti su ogni protagonista per via del cosiddetto sistema. Questo potrebbe sembrare un po’ingenuo, ma era il mio approccio alla storia del film. Il capitano è il protagonista, mentre i marinai filippini sono la rappresentazione del mondo reale, il lavoro che è stato esternalizzato ma che comunque esiste.
Nel finale il tuo film sembra voler suggerire una questione cruciale…
Rimando a ciò che ho risposto prima. Aggiungo che la libertà di scelta dipende molto dalle diverse “comfort zone” in cui uno è nato. Di conseguenza emergono priorità diverse. Per un marinaio filippino proveniente dalla provincia educare i propri figli e costruire una prospettiva per le generazioni future vuol dire molto, mentre per un secondo ufficiale rumeno potrebbe trattarsi di migliorare il proprio standard di vita. Per un capitano finlandese potrebbe invece significare di chiedere a se stesso il significato della vita… per me la nozione più importante (anche in riferimento alla fine del film, che preferirei non interpretare) è quella della consapevolezza, non solo quella di non seguire il gregge, ma quella di essere consapevoli delle restrizioni piuttosto che seguire la massa e obbedire. Quindi la simulazione alla fine presenta il mito classico della caverna: è solo una riflessione o è reale? La prima volta che ero in un simulatore ci ho pensato: qualcuno si libera delle sue catene, torna nella caverna e dice agli altri del sole fuori, ma quelli non lo credono, pensano che sia pazzo e preferiscono continuare a credere nella proiezione delle ombre. È più facile. A volte così mi sento quando lascio il cinema. A ben vedere, si tratta di un particolare stato d’animo. (andrea bottalico)