Il Glasgow Climate Pact approvato dalla ventiseiesima Conferenza delle Parti delle Nazioni Unite è un accordo vergognoso che poteva essere di gran lunga peggiore. Lo scopo dichiarato della COP26 era di “mantenere in vita 1.5°C”: la flebile possibilità di restare al di sotto della soglia limite di aumento della temperatura media sulla Terra fissata dagli scienziati, attraverso riduzioni drastiche delle emissioni di gas serra. La promessa era di concretizzare una tabella di marcia condivisa entro il quadro delle diverse responsabilità storiche e delle rispettive capacità dei paesi, provvedendo a rendere disponibili risorse per la mitigazione, l’adattamento e i danni emergenti nei paesi più vulnerabili e meno responsabili. Doveva essere la COP della resa dei conti – dopo il “codice rosso” lanciato dalle Nazioni Unite, dopo l’inquietante ultimo rapporto dell’IPCC, dopo le manifestazioni globali e i disastri climatici in tutte le regioni della Terra. Due settimane piú tardi, i conti non tornano.
La traiettoria drammatica delle emissioni umane che causano il riscaldamento globale è stata appena scalfita. Con le attuali politiche si arriverà a circa 2.7°C entro il 2100. Se i paesi realizzassero i contributi nazionali alle riduzioni per l’obiettivo a breve termine del 2030, il riscaldamento previsto entro il 2100 scenderebbe a 2.4°C. Infine, se i paesi mantenessero le promesse di zero netto a lungo termine e le alleanze su metano, trasporti e deforestazione portate a Glasgow, il riscaldamento si ridurrebbe a circa 1.8°C entro il 2100. Tutto questo nel migliore degli scenari e se tutto va per il verso giusto. Il raggiungimento degli obiettivi rivisti, in particolare le promesse di zero netto a lungo termine, dipenderà dalla traduzione in impegni significativi a breve termine, l’unico modo secondo Climate Action Tracker di colmare il “gigantesco divario di credibilità” tra obiettivi futuri e azioni nel presente. E su un pianeta che già a 1.2°C di aumento della temperatura media vede moltiplicarsi eventi estremi e degradazione degli ecosistemi, associati al rischio di innesco di processi irreversibili, queste proiezioni sono sentenze di condanna per la maggioranza.
I paesi in via di sviluppo e le comunità vulnerabili non hanno raggiunto i risultati sperati per assicurare la stabilità climatica e la propria sopravvivenza, ma i loro argomenti sono stati imposti al tavolo dei negoziati e ci rimarranno. La COP di Glasgow crea un ulteriore meccanismo di “dialogo” per dirimere i disaccordi sulle compensazioni per le perdite e i danni inevitabili (loss and damage) e l’ennesima promessa di raddoppiare la finanza climatica dedicata all’adattamento.
Ora che la stampa occidentale si scaglia contro India e Cina per la riluttanza nel promettere la fine dei sussidi al carbone nei loro paesi, un consumo spesso collegato a emissioni di sussistenza, i veri criminali si defilano dalle proprie responsabilità. Come ha affermato lo scienziato climatico Kevin Anderson, aver focalizzato il discorso sul carbone (il combustibile principale in molti paesi poveri) senza dedicare la medesima attenzione al petrolio e al gas (preferiti dai paesi ricchi) non fa che aumentare la divisione tra “noi e loro”, sviluppati e in via di sviluppo, ricchi e poveri, minando alla base qualsiasi rapporto di fiducia e quindi di proficua collaborazione. In effetti, al di là dei discorsi accorati e solidali dei capi di stato durante la prima settimana della COP, sono stati ancora una volta i paesi del nord globale (in particolare, Stati Uniti, Regno Unito e Unione Europea) a sabotare l’accordo, ridurre le ambizioni, rallentare la transizione, e a rifiutare di onorare le proprie responsabilità storiche.
Oltre ai delegati ufficiali, Glasgow ha anche visto convergere attivisti, movimenti e associazioni della società civile da tutto il mondo. Osservatori dei negoziati dentro, animatori di azioni dimostrative e manifestazioni fuori, i rappresentanti di nazioni indigene, comunità dal fronte degli impatti, organizzazioni ambientaliste e per la giustizia sociale, associazioni giovanili e religiose, sindacati dei lavoratori e molti altri hanno cospirato all’ombra delle guglie gotiche delle chiese scozzesi per elaborare la risposta sociale a una COP di cui si conoscevano in anticipo tutti i limiti. Il Summit delle Persone, messo insieme dalla COP26 Coalition, frutto della cooperazione dei movimenti locali che hanno fatto gli onori di casa, ha proposto un programma di seminari e workshop per smontare ipocrisie e illusioni della burocrazia climatica. Formazione e strategia hanno costituito i poli del dibattito. Negli interminabili confronti, tra litri di caffé, mate e qualche whisky, si conveniva sulle necessità di ricomposizione e generalizzazione del conflitto, di azione diretta contro il fossile e di auto-organizzazione delle alternative, come elementi fondanti del piano di resistenza popolare al collasso ecologico.
IL DOCUMENTO FINALE
I fautori dell’ottimismo climatico – occidentali, bianchi, maschi e in giacca e cravatta – ci tengono a sottolineare che l’accordo di Glasgow menziona (dopo ventiquattro anni, dai tempi della COP3) i “combustibili fossili” nella parte del documento in cui le nazioni concordano nell’affrontare i “sussidi inefficienti”, che ci si impegna a ridurre (phase-down) piuttosto che eliminare (phase-out). Progresso? Solo se si dimentica che l’anno scorso sono stati distribuiti circa 6000 miliardi di sussidi al fossile e non è chiaro quali di questi saranno considerati “inefficienti”.
Le emissioni saranno dimezzate entro il 2030, come la scienza comanda? No, aumenteranno. Prima della COP la proiezione era del +16%, adesso siamo al +13%. Grazie alle pressioni dei paesi più vulnerabili, una concessione c’è stata: secondo le regole di Parigi, i paesi dovevano aggiornare i propri obiettivi e piani di riduzioni delle emissioni ogni cinque anni; l’accordo di Glasgow chiede di tornare già nel 2022 con obiettivi “rivisitati e rafforzati”. Ma più che un ordine è un invito: a partire dalla COP di Copenhagen del 2009, i contributi nazionali sono solo pledges, promesse, non più binding, cioè obbligatori e con sanzioni annesse. Soprattutto, gli obiettivi nazionali sono decisi autonomamente dai singoli stati e non collettivamente, quindi senza tenere in conto né il budget di carbonio complessivo (la quantità di gas serra che è possibile emettere prima di superare una determinata soglia di temperatura), né i principi di equità.
Promesse e impegni sono il risultato principale fin dalla COP1 del 1995, procrastinando azioni concrete di anno in anno fino a giungere alla soglia di Glasgow con tutti gli allarmi impazziti. Per fare cosa? Rimandare ancora. Non stupisce allora che la delegazione più numerosa della COP di Glasgow – 503 persone – proveniva da aziende che commerciano in combustibili fossili. Più nutrita delle delegazioni di Bahamas, Bangladesh, Filippine, Haiti, Mozambico, Myanmar, Pakistan e Puerto Rico messe insieme, otto tra i paesi più colpiti dal collasso climatico.
Proprio su loss and damage, il quadro legale che dovrebbe regolare le compensazioni per le perdite e i danni inevitabili nei paesi che già ora subiscono impatti, terzo pilastro delle politiche climatiche insieme a mitigazione e adattamento, i paesi ricchi e più responsabili hanno fallito di nuovo nel mettere a disposizione risorse. Annunciato nel 2009 e determinato nell’ammontare di cento miliardi di dollari l’anno tra il 2020 e il 2025, il fondo per loss and damage e le modalità dei trasferimenti non sono stati definiti, spingendo alla prossima COP la consegna di un prima parte di risorse (con l’eccezione delle Scozia, il paese in cui è iniziata la rivoluzione industriale, che ha già versato al fondo due milioni di dollari). Un colpo basso ai paesi più vulnerabili, che esigevano già in questo consesso la creazione del Glasgow Loss & Damage Facility, una struttura tecnica dedicata alla raccolta e distribuzione dei fondi per sopperire a danni e perdite.
Il decantato successo della finalizzazione del “Paris rulebook” relativo all’Articolo 6 degli accordi di Parigi sulle misure di cooperazione tra paesi per arrivare alle riduzioni promesse, si sostanzia nel potenziamento e nell’approfondimento del carbon trading (il commercio di crediti di carbonio) e di altri meccanismi di mercato senza garanzie sul rispetto dei diritti umani, pur se qualche nota sulla trasparenza è stata aggiunta. L’atmosfera però non reagisce ai buoni propositi, solo a riduzioni effettive. In molti tra scienziati e attivisti, hanno messo in guardia da un’eccessiva dipendenza nei confronti di tecniche di rimozione del carbonio dall’aria (naturali e artificiali) su cui si basano i crediti di carbonio e lo zero “netto” associato agli obiettivi di mitigazione. Affidarsi alla riforestazione su larga scala e a tecnologie per ora inefficaci per compensare le emissioni si rivela un alibi per evitare costose riduzioni effettive a breve termine. Glasgow apre a un ulteriore espansione dei mercati di carbonio, lasciando le decisioni sui settori e modalità di compensazione saldamente nelle mani dei player di mercato più forti.
Ciò comporta seri rischi di overshoot: l’umanità emette più di quaranta miliardi di tonnellate di CO2 all’anno e secondo le stime dell’IPCC sono rimaste solo circa duecento miliardi di tonnellate di budget di carbonio per una chance del 66% di rimanere entro 1.5°C di aumento di temperatura. Al ritmo attuale delle emissioni, ci sono appena cinque anni prima che il superamento di questa soglia diventi una certezza. In tale contesto, questo accordo continua a creare scappatoie per emettere oggi sperando di mitigare domani.
Ma per la maggioranza del mondo non è il futuro a essere a repentaglio. È l’ora.
Secondo Nathan Thanki, attivista britannico di lungo corso e coordinatore di Global Campaign to Demand Climate Justice, la COP26 ha chiarito che l’era del negazionismo climatico è finita e si entra nel vivo dell’era del colonialismo climatico. Muri che separano zone di estrazione e disastri dalle città protette, verdi e smart degli inclusi; fortezze della decarbonizzazione che compensano le emissioni dell’élite globale; una spirale di violenza in nome della “sicurezza climatica”. La tendenza era persino visibile nell’organizzazione spaziale del luogo della conferenza: al centro, nella Blue Zone, le stanze dei negoziati; attorno, nella Green Zone, una fiera sfavillante occupata per la maggior parte dalle multinazionali che sponsorizzano la COP, a presentare i propri progetti di “combustibili fossili senza emissioni”, impianti di energia rinnovabile su scala industriale, modalità di compensazione del carbonio attraverso alberi e tecnologie. Un rappresentante indigeno degli Hupa, stanziati nell’attuale California, mi ha detto con un nodo alla gola che entrare nei padiglioni della COP per lui è stato “tragico”: si vedevano e si ascoltavano stati e aziende che preparano l’ennesimo, forse ultimo, assalto ai territori indigeni (che ospitano l’80% della biodiversità globale) da “valorizzare” con iniezioni di capitalismo verde e progetti di compensazione climatica.
D’alta parte, chi si fiderebbe di un paese come gli Stati Uniti, il cui presidente, a pochi giorni dalla fine della COP, sta per approvare la “bomba di carbonio” di depositi fossili più grande della storia americana? Non diversamente dal governo di Boris Johnson, che si appresta a inaugurare una miniera di carbone in Cumbria ed è impegnato per la “massima ripresa economica” post-Covid dell’estrazione di petrolio e gas dai fondali del Mare del Nord. O dalla Total, la più grande compagnia privata francese, benedetta da Macron, che inizierà presto la costruzione dell’oleodotto più lungo del mondo, in Uganda e Tanzania, attraverso 230 fiumi e 12 riserve forestali dove centomila persone non potranno più vivere, per esportare ancora più petrolio verso i mercati mondiali.
LA RISPOSTA DEI MOVIMENTI
Per rispondere al fallimento annunciato della COP, tra gli spazi del People’s Summit e le strade di Glasgow, si sono costruite alleanze tra movimenti territoriali giunti da vicino e lontano, e si sono scambiate esperienze di militanza sociale, ambientale e climatica. Aperto dalla marcia per la giustizia climatica di più di centomila persone di sabato 6, tra il 7 e il 10 novembre si è svolto un programma di conferenze, seminari e workshop in una decina di luoghi disseminati nel centro città, con lo scopo di mappare i temi cogenti e le forze attive che rifiutano di darsi per vinte.
Una convergenza che segnala l’efficacia della giustizia climatica come collettore di esperienze anche molto diverse, unite dall’aspirazione di sovvertire lo stato di cose presenti per garantire giustizia e sopravvivenza alla maggioranza del mondo. Ma che rimanda anche alla sfida di allargare il movimento per la giustizia climatica verso quei settori e gruppi sociali che ancora ne sono ignari, o lo guardano con sospetto o inchiodati su posizioni moderate. La domanda esplicitata a più riprese durante le sessioni interrogava i modi in cui la generalizzazione della cooperazione sociale intorno alla politica del clima possa forzare il raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione mettendo contemporaneamente al centro le necessità e i bisogni di chi subisce le discriminazioni del capitalismo fossile, ne ha sofferto gli esiti e rischia di affondare prima degli altri.
Dalle cause climatiche in tribunale contro stati e corporation (che si possono vincere, come dimostra il processo alla Shell), fino alle coalizioni dal basso per l’azione diretta sugli impianti che emettono carbonio, la strategia ha tenuto banco. Il salto di qualità richiesto al movimento è una risposta all’altezza dell’urgenza e consapevole dell’inutilità delle COP. Uno degli strumenti di tale avanzamento è il Glasgow Agreement degli attivisti, la risposta dal basso “per invertire la narrativa globale dall’impotenza istituzionale al potere sociale”. Il programma di questo accordo punta alla creazione di un inventario dei principali settori, infrastrutture e progetti responsabili delle emissioni di gas serra in ciascun territorio, che saranno pubblicizzati a livello nazionale e internazionale. Su questa base, si arriverà alla produzione di un’agenda climatica, cioè un piano d’azione per il contrasto diretto alle emissioni presenti e future, progettato da comunità, movimenti e organizzazioni che lavorano sul campo, da attuare attraverso la disobbedienza civile e la solidarietà internazionale.
Una nuova era dell’attivismo climatico e sociale sta iniziando, o deve iniziare per forza di cose. La sua caratteristica è di focalizzarsi sul qui e ora mentre allo stesso tempo si prepara a una decade di resistenza e azione per rispondere colpo su colpo alle politiche inadeguate come ai disastri in corso. Un movimento che guarda alla storia, per raddrizzarla, e alle generazioni future, per farne le veci. Che ragiona su scale secolari, raccogliendo l’eredità di cinquecento anni di lotta per la sopravvivenza dai popoli indigeni. Che si preoccupa degli ultimi e che trae forza non dal timore della distruzione ma dalla consapevolezza che il mondo può e deve diventare un posto migliore. (salvatore de rosa)