
Sarà presentato domani, giovedì 17 novembre, per la prima volta a Roma, alla libreria Libri necessari (via degli Zingari, 22/a), il dossier curato dalla campagna LasciateCIEntrare: Dietro le mura. Abusi, violenze e diritti negati nei Cpr d’Italia, pubblicato con il supporto di Safe Passage Foundation e GLS Treuhand. Alla discussione, a partire dalle 18:30, parteciperanno alcuni degli autori del rapporto.
Pubblichiamo a seguire alcuni estratti del contributo Dalle navi quarantena alla detenzione amministrativa informale, di Fulvio Vassallo Paleologo.
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È finita nel giugno 2022 la stagione dell’accoglienza/detenzione sulle navi quarantena, che dal mese di aprile del 2020 hanno sostituito di fatto un sistema di prima accoglienza che il Decreto sicurezza del 2018 imposto da Salvini aveva destrutturato, dopo l’attacco giudiziario al sistema di accoglienza diffusa esploso con il caso Riace. Sembra calato intanto il silenzio sugli abusi che si sono verificati durante l’attività delle navi traghetto noleggiate a caro prezzo per assolvere la funzione di garantire la quarantena obbligatoria per tutti coloro che facevano ingresso in Italia via mare, autonomamente o per ragioni di soccorso. Rimangono a ricordare il costo umano del decreto della Protezione civile del 12 aprile 2020, istitutivo delle navi quarantena, le giovani vite che si sono perse, qualche procedimento penale, le denunce del garante nazionale per le persone private della libertà personale.
Dal primo giugno, tutti i naufraghi soccorsi dalle ONG, alle quali ormai si delega l’attività di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo centrale (dopo il ritiro dalle acque internazionali di tutti gli assetti navali di Frontex, e l’inerzia dei mezzi militari italiani), sono accolti dopo lo sbarco in centri di prima accoglienza/hotspot, ubicati esclusivamente a terra. Negli stessi centri finiscono i numerosi migranti in fuga dalla Libia, ma anche dalla Tunisia, dall’Algeria e dall’Egitto, che arrivano autonomamente o sono soccorsi all’interno delle acque territoriali italiane, e che costituiscono ormai quasi il 90% degli arrivi via mare in Italia. Il loro numero non si discosta sensibilmente, almeno per ora, da quello dello scorso anno, meno di 70.000 persone in tutto. Non si può certo parlare di “invasione”, come hanno ripreso a fare i soliti sciacalli, considerando anche che un terzo dei migranti che partono dalle coste libiche viene intercettato in acque internazionali dalla sedicente guardia costiera libica, e ricondotto nei centri-lager dove gli abusi sono uno strumento per estorcere ai familiari altri soldi al fine di salvare la vita dei propri congiunti.
Come si è verificato quando il governo ha presentato i dati in Parlamento, in occasione dell’accoglienza dei profughi ucraini, la soglia di ricezione nei centri in Italia rimane particolarmente bassa, anche se sulla carta si è tornati alla formula dell’accoglienza diffusa, prevedendosi l’attivazione di una modalità affidata a comuni e associazioni del terzo settore per garantire l’accoglienza fino a 15.000 persone.
Per quanto concerne i centri di prima accoglienza/hotspot, questi rimangono disciplinati da una normativa assai lacunosa, diventando nella prassi amministrativa spesso luoghi di confinamento, se non di detenzione vera e propria. […]
La questione che purtroppo si continua a riprodurre riguarda la sostanziale privazione della libertà personale che comporta la detenzione amministrativa anche al di fuori delle strutture definite come Centri per il rimpatrio (Cpr), riservati alle persone destinatarie dei provvedimenti di respingimento o di espulsione. Provvedimenti che adesso vengono adottati anche nei confronti di persone che si trovano in “altre strutture” come gli hotspot e i centri di transito in frontiera, a disposizione delle autorità di polizia. […] I rapporti delle Organizzazioni non governative che hanno potuto visitare i centri di detenzione amministrativa in frontiera e le strutture hotspot descrivono una realtà ben lontana dalle previsioni di legge. Tutto sembra affidato alla discrezionalità amministrativa. Lo “stato di emergenza” derivante dalla pandemia da Covid-19 ha comportato una espansione senza precedenti delle procedure di limitazione della libertà personale, sostanzialmente rimesse alle autorità di polizia. La carenza dei centri di accoglienza ha determinato già sulle navi quarantena casi di trattenimento arbitrario, perché prolungato oltre i termini di legge, per la mancanza di strutture nelle quali trasferire i migranti al termine della quarantena.
Le persone internate nei centri di prima accoglienza o negli hotspot, in molti casi, vi rimangono più a lungo dei quattro giorni previsti dalla Costituzione (art.13) per la convalida giurisdizionale delle misure amministrative di limitazione della libertà personale, senza alcun diritto di difesa, a differenza di quanto dovrebbe accadere invece, e non sempre accade, nei Centri per il rimpatrio (Cpr). Su questo la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha detto cose molto chiare, con sentenze di condanna per l’Italia, come nel caso Richmond Yaw/Italia, che è stato semplicemente nascosto e presto rimosso. Con la sentenza Richmond Yaw e altri contro Italia, pubblicata il 6 ottobre 2016, la Corte ha condannato l’Italia per violazione dell’art.5 par.1, lett. f e par. 5 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, per il prolungamento arbitrario del trattenimento amministrativo all’interno del Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria (Roma), e per il mancato riconoscimento del diritto alla riparazione del danno derivante dalla ingiustificata privazione della libertà personale.
L’Italia non si è neppure adeguata alla sentenza di condanna inflitta sul caso Khlaifia dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, e come nel caso di altre condanne riportate a Strasburgo, il governo ha proseguito, anche per ragioni commerciali, nella sua politica di collaborazione con paesi terzi che non rispettano i diritti umani, ma non si sono certo bloccate le partenze. […] Con riferimento al trattenimento amministrativo in un Centro di soccorso e di prima accoglienza come quello di contrada Imbriacola a Lampedusa, la Grand Chambre della Corte Europea dei diritti dell’uomo, con una decisione definitiva sul caso Khlaifia, votata su questo punto all’unanimità, ha riconosciuto la ricorrenza della violazione dell’art. 5 CEDU da parte dell’Italia, perché i ricorrenti tunisini risultavano essere stati illegalmente privati della libertà personale, nel Cspa di Lampedusa, nel settembre del 2011. Da allora a oggi la situazione nell’hotspot non è sostanzialmente cambiata. Ma il 2 dicembre 2021 il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha ufficialmente chiuso la procedura di supervisione sull’attuazione della sentenza Khlaifia c. Italia della Corte Europea, in ennesimo esempio di come la giustizia europea si possa piegare alle scelte politiche dei governi. Le conseguenze di questo disimpegno del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, evidentemente espressione dei governi che nominano i loro rappresentanti, sono già ben visibili.
Una situazione di costante violazione dei diritti umani si riproduce sul nostro territorio dove si trovano ancora oggi luoghi che rimangono di fatto al di fuori del diritto, dove le persone sono anzi indotte a una ulteriore clandestinizzazione, come si verifica nei numerosi casi in cui poi proseguono la loro fuga verso altri paesi europei, magari dopo la consegna del decreto di respingimento firmato dal questore (impropriamente chiamato “foglio di via”), con il marchio impresso sulla pelle di “clandestini”, che ancora oggi equivale, alle frontiere europee, alla condizione di “senza diritti”.
L’ultima invenzione, in una stagione in cui si tenta con l’ipocrisia delle definizioni di nascondere la sostanza delle politiche migratorie del governo, è costituita dai cosiddetti “centri di transito”, come quello che si è aperto a Porto Empedocle, in provincia di Agrigento, che nei progetti della prefettura e del ministero dell’Interno, con i quali collaborano Unhcr e Croce Rossa, dovrebbe servire a favorire il decongestionamento del centro di prima accoglienza/hotspot di Lampedusa, che già è operativo con un numero di “ospiti” anche quattro volte superiore alla sua capienza massima (duecentocinquanta persone). Una tensostruttura, come quella utilizzata a Porto Empedocle, all’interno del porto, negli anni passati, che malgrado il tentativo di sfumare la vera destinazione, potrebbe servire a limitare a tempo indeterminato, e non solo per qualche ora, la libertà personale di quanti vi verranno “accolti”. Le previsioni numeriche che si sono fatte in tema di capienza massima della nuova struttura, per appena qualche decina di migranti, appaiono lontane dalla realtà dei transiti a Porto Empedocle, se solo si considera l’esperienza degli anni nei quali all’interno dell’area portuale era funzionante una analoga tensostruttura, nella quale, a fronte di cento posti previsti, venivano trattenuti in transito anche per giorni oltre cinquecento persone. […]
Rispetto ai 140.000 posti offerti fino al 2017 dai sistemi di accoglienza in Italia, oggi si può stimare che siano rimasti attivi non più di 30-40.000 posti, compresi quelli recentemente attivati per i profughi ucraini. […] Si assiste intanto all’ennesimo fallimento delle politiche di blocco delle partenze, basate sulla deterrenza che si sperava di perseguire con accordi bilaterali per respingimenti collettivi (su delega ai paesi terzi), tanto da ritenere che il sistema di accoglienza italiano potesse essere ridotto ai minimi termini. Un tragico errore che si continua a ripetere dal 2011, e che si è consolidato con i decreti sicurezza imposti da Salvini. […] Sembra sempre di assistere alla ripetizione di un vecchio copione: la creazione di un falso clima di emergenza per esigenze elettorali, senza affrontare le cause profonde con interventi strutturali.