
Mercoledì 23 novembre sono scese in presidio in piazza Santi Apostoli diverse realtà, insieme ai movimenti per il diritto all’abitare, per difendere la direttiva del sindaco di Roma Gualtieri che indicava alle anagrafi l’interpretazione delle deroghe al famoso articolo 5 del decreto Renzi-Lupi del 2014, bloccata dal prefetto di Roma Frattasi con modalità tutte da chiarire. Prima di rendere conto dell’incontro tra lo stesso prefetto e una delegazione dei manifestanti, è importante spiegare cosa è successo nelle settimane precedenti. L’approvazione della direttiva del sindaco Gualtieri, determinata in maniera preponderante dalle pressioni del movimento per il diritto all’abitare, avrebbe favorito secondo giornali e tv gli “abusivi occupanti”, ovvero migliaia di nuclei familiari costretti a occupare edifici per soddisfare il bisogno di un tetto nella città che abitano e in cui lavorano.
Nel pieno della crisi economica post 2008-2011, la città di Roma mette in campo la sua tradizione di contrattazione sociale: la lotta per la casa, che nel frattempo è stata declinata oltre il mero tetto sulla testa, nel più generale “diritto all’abitare”. Vengono occupati in quegli anni decine di stabili, con il culmine nel cosiddetto “tsunami tour” del 2013. In reazione, nel 2014, con lo scopo dichiarato di combattere il fenomeno delle occupazioni abusive, il Pd renziano partorisce un decreto che all’articolo 5 prevede il divieto di eleggere la residenza e di allacciare le utenze all’interno degli stabili occupati. Come altre volte nella modernità, l’espropriazione di alcune persone dall’accesso al contratto sociale, e dunque ai diritti e alle risorse, passa attraverso il meccanismo della negazione del diritto all’iscrizione anagrafica. Mentre il diniego delle utenze spinge le persone all’illegalità, perché ogni utilizzo sarà di fatto un furto, la questione del divieto di residenza rende non esercitabili una lunga lista di diritti: l’iscrizione al sistema scolastico e sanitario nazionale, l’accesso al welfare locale, l’esercizio del voto, la possibilità di fare richiesta di alloggio popolare. Particolare della città di Roma è che la soluzione tampone della residenza fittizia, come quella data ai senza fissa dimora – che, in ogni caso, ha alcune condizionalità a partire dal pacchetto sicurezza di Maroni del 2008 –, non consente il rinnovo del permesso di soggiorno. Dunque una norma che produce illegalità, e quindi ulteriore ricattabilità dei soggetti colpiti.
Il carico punitivo della legge è evidente e la sua portata è rilevante sia sotto il profilo quantitativo sia sotto quello qualitativo: nella sola città di Roma sono circa quindicimila le persone che vivono negli oltre settanta stabili occupati, per mancanza di alternative in un quadro che vede circa sessantamila famiglie in difficoltà abitativa. Sul piano qualitativo, degli effetti sulle vite delle persone, la negazione della residenza ha effetti vari.
Katia è in Italia da decenni e nel suo italiano dall’accento esteuropeo chiede di risolvere in urgenza la questione della residenza, altrimenti perderà la pensione che gli spetta dopo anni di contributi al nostro sistema previdenziale. Occupa perché con il suo basso salario e il marito con una grave malattia, non riusciva a pagare l’affitto.
Fatima in Italia ci abita da vent’anni, aveva una residenza dalla zia a Fiano Romano, che adesso è stata cancellata dopo la morte della parente. Come conseguenza, non riesce ad affrontare la malattia respiratoria del figlio perché le risulta impossibile iscriverlo al servizio sanitario nazionale. Durante la pandemia, la mancata iscrizione al SSN ha comportato l’impossibilità di un accesso veloce sia ai tamponi sia ai vaccini, diventati necessari all’esercizio del diritto al lavoro. Per molti insomma, il nocciolo della questione sta nel dover lavorare in una città in cui non è però possibile abitare per insufficienza delle risorse e per mancate politiche pubbliche e, laddove si metta in campo la strategia conflittuale dell’occupazione di stabili abbandonati, si passa sotto il supplizio di una punizione che complica la vita. Di molto.
Paula parla spesso di dignità: quando è partita dal Perù aveva ventuno anni, adesso ne ha più di quaranta. Ha speso cinquemila euro per l’arrivo in Italia. Madre di due figli, ha sempre lavorato nel settore domestico e della cura, per salari molto spesso inferiori ai mille euro. A inizio 2012 la crisi economica le aveva reso ormai insopportabili i momenti di disoccupazione e i risparmi per pagare l’affitto non bastavano più. Come sempre succede, la leva che spinge all’occupazione sono alcune spese che divengono impossibili da fronteggiare: i conguagli delle bollette in questo caso. Paula occupa e riesce in questo modo a far crescere i propri figli. Qualche anno prima dell’inizio della pandemia, il figlio ha maturato l’età per giocare a calcio e Paula è contenta di potergli dare questa opportunità di parificarsi ai suoi compagni di scuola, ma scopre che la residenza che aveva a casa di una amica le è stata cancellata e, dunque, non può iscrivere il figlio a calcio. Risolve con la residenza fittizia, ma il dramma si presenta qualche mese dopo, quando dovrebbe rinnovare la sua carta di soggiorno. Non può farlo con la residenza fittizia. Ce ne vuole una fissa, secondo l’interpretazione illegittima della questura di Roma. Paula pensa di prendere una casa in affitto, ma riesce a guadagnare dai seicento agli ottocento euro mensili. Con due figli, di cui uno adolescente, non è assolutamente in grado di pagare un canone di locazione. Il rischio è dunque quello di perdere la condizione di permanenza legale sul territorio e dunque di avere un regolare contratto di lavoro. Il pericolo spinge Paula a chiedere “il favore” al suo datore di lavoro di farle prendere la residenza nella sua casa. Persone che conosce, nelle stesse condizioni, per ottenere la residenza sono costrette a pagare degli affitti in tuguri e scantinati dove non vivono. Dove non possono vivere. Il datore di lavoro invece “concede” la residenza a Paula, che risolve certo un problema ma entra in una dinamica di subalternità e dipendenza: lasciare il lavoro significherebbe perdere la residenza, ma anche discutere, negoziare, contestare le proprie condizioni di lavoro. Paula interpreta appunto la sua situazione in termini di perdita della dignità.
La direttiva Gualtieri non cancella tutto questo, perché l’azione di un sindaco non può essere normativa e non può scavalcare le leggi nazionali. Essa fa leva su alcune deroghe al decreto, tarate sulle cosiddette condizioni di fragilità, previste dalla stessa legge emanata da Renzi e Lupi. La direttiva del sindaco si limita a dare indicazioni alle anagrafi su come applicare queste deroghe. In particolare, il sindaco indica che tali eccezioni sono rappresentate: dai nuclei in carico ai servizi sociali o in condizione di fragilità legata alla presenza di minori, disabili, anziani al di sopra dei sessantacinque anni; i nuclei che hanno un reddito inferiore a quello usato come requisito di accesso alle case popolari (ventunomila euro); i nuclei in pesante disagio abitativo; i richiedenti asilo e rifugiati. Da ultimo, ma non in termini di importanza, la direttiva stabilisce la possibilità per tali soggetti di fare domanda per un alloggio popolare.
L’art. 5 del decreto Renzi-Lupi ha uno scopo dichiaratamente punitivo nei confronti di chi intraprende la strada dell’occupazione in mancanza di alternative: è una forma di disciplinamento che manda un chiaro messaggio ai subalterni che avessero intenzione di emanciparsi, in forma auto-organizzata, dalla loro condizione. La sua azione centrale si dispiega infatti nel meccanismo disciplinante dell’ancoraggio dell’esercizio dei diritti, anche di base, a una logica meritocratica: il soggetto si deve comportare bene per poterli esercitare. Di contro, invece, la direttiva Gualtieri, pur non essendo niente di rivoluzionario, restituisce un minimo di possibilità di azione ai subalterni e di dignità alla vita urbana di molte e molti. Ma il suo peccato originale, dal punto di vista di chi le si oppone, è che essa dà ragione al movimento per il diritto all’abitare. Offre cioè il pericoloso precedente di una realtà di lotta che tramite il lavoro costante, la determinazione e l’organizzazione arriva al risultato del superamento di un provvedimento repressivo. In questo senso vanno lette le allarmistiche dichiarazioni di questi giorni rispetto alla vicenda: l’autorganizzazione dei subalterni nelle lotte sociali deve rimanere una delle possibilità scartate e nemmeno pensabili del nostro vissuto, al massimo si può elemosinare qualche vaga promessa all’interno dei meccanismi elettorali.
Sono questi i motivi per cui la direttiva Gualtieri ha generato inquietudine, soprattutto tra i settori più reazionari delle classi dirigenti, che, per bocca del prefetto di Roma, hanno intimato al sindaco di fermarsi, di non andare oltre. Sembrano essere due gli elementi problematici: il criterio del reddito (lo stesso per l’accesso all’edilizia residenziale pubblica), ritenuto troppo largo, e la questione della possibilità per gli occupanti di fare richiesta di casa popolare. I malumori, da destra, rispetto alla misura emanata dal sindaco, si erano già manifestati sul piano territoriale: il presidente del VI municipio, Nicola Franco, aveva tacciato di “follia ideologica” la direttiva di Gualtieri annunciando l’indicazione al suo municipio di non attuarla.
I motivi esposti dal prefetto durante l’incontro con la delegazione della piazza sembrano essere però leggermente diversi, come spiegano al microfono gli attivisti e le attiviste che, passate da poco le 19, scendono dalla prefettura. Il motivo per cui Frattasi avrebbe convocato il sindaco starebbe nel margine troppo ampio che questa direttiva lascerebbe alla malavita, a coloro che sono stati definiti dal prefetto come “non meritevoli di tutela”, alle mafie che gestiscono le occupazioni in termini di compravendita. A parere dei delegati della piazza non è un gran discorso, perché apre a una modifica della direttiva – che invece andrebbe bene così come è – che implica una selettività di meritevoli i cui criteri non sono chiari, e rischiano di essere in termini di ordine pubblico. Dalla piazza la voce è univoca anche verso il sindaco, il cui metodo di lavoro dovrà essere quello di decidere insieme alla città su eventuali modifiche alla direttiva. Una città che è pronta a manifestare in Campidoglio se dovesse essere esclusa dai processi decisionali, una città ancora in attesa di un Piano Casa capace di risolvere a monte le condizioni di necessità abitativa dei cittadini. (osvaldo costantini)