Oggi sabato 19 gennaio 2019, ottanta dipendenti campani della multinazionale H&M, hanno deciso di aderire alla giornata di sciopero indetta dai sindacati Cgil Filcams e Cisl, che da più di un anno supportano le rappresentanze sindacali aziendali costituitesi all’interno dei punti vendita. L’appuntamento è alle 11 in via Toledo, all’ingresso del punto vendita “405”, dove un tempo c’era la Rinascente. Li senti che tra loro si dicono «io sono del 405 tu da dove arrivi?». Ludovico Vitale, della Filcams, ci spiega le motivazioni della protesta: «La motivazione principale è che il 4 agosto 2019 scadrà il contratto di affitto del locale di via Toledo che l’azienda non ha intenzione di rinnovare. In questo negozio lavorano settantacinque dipendenti. L’azienda non divulga notizie ed effettua attività antisindacale in tutti i punti vendita ed è per questo che c’è stata la solidarietà regionale. Lo sciopero coinvolge i dieci punti vendita della Campania, per lo più presenti all’interno di centri commerciali. Se la questione non si dovesse risolvere abbiamo già in programma almeno altre due giornate di sciopero».
Nel frattempo la pioggia è cessata e dalla sede della banca dove si erano assembrati per organizzarsi con fischietti e bandiere, i lavoratori si muovono verso il negozio formando due blocchi laterali così da creare una sorta di passerella per scoraggiare chiunque voglia entrare in H&M stamattina. Nella via dello shopping, in un sabato di saldi, i fischietti e gli slogan non lasciano tregua, e si urla: «Dove sono i vostri valori?». Infatti, non c’è slogan o video-promo nel quale H&M manchi di esaltare quanto i suoi dipendenti, che ha in tutto il mondo, siano importanti.
Tra le fila della protesta incontro D. un visual merchandiser (allestimenti interni e vetrine) con contratto full time (quaranta ore settimanali). Ha il terzo livello commerciale, 1.256 lordi al mese, paga base (in H&M ci sono le paghe più basse tra quelle della filiera produttiva del fast fashion). È entrato in azienda otto anni fa e da un anno e mezzo è diventato rappresentante sindacale aziendale. Mi racconta che i lavoratori del 405 hanno scoperto da soli che l’azienda stava pensando di chiudere in Via Toledo: «A nostra insaputa persone di altri punti vendita della zona venivano a vedere i locali del negozio». Le voci hanno iniziato a circolare e tre mesi fa sono stati indetti alcuni giorni di agitazione interna, non svolgendo alcune mansioni in orario di chiusura del negozio. Lì l’azienda si è decisa a rivelare che c’era una trattativa in corso, senza entrare nei particolari, temporeggiando. «Se provi a parlare con le risorse umane – dice D. – li trovi chiusi a riccio, nessuno spiega nulla, il 4 agosto è vicino e siamo tutti appesi a un filo. L’unica preoccupazione dell’azienda è osteggiare l’attività sindacale».
Infatti F., un sales advisor (addetto alle vendite), mentre agita la sua bandiera mi racconta che l’azienda osteggia le assemblee sindacali dando la pausa pranzo durante gli incontri e che, in previsione della giornata di sciopero, ha convocato una per una le persone in scadenza di contratto dicendo “se partecipi allo sciopero non possiamo garantirti cosa ne sarà del tuo futuro”. «I capi ci fanno mobbing affinché ci licenziamo da soli – dice F. – e si attivano per marginalizzare chi aderisce al sindacato». I lavoratori non sanno se il marchio è realmente in crisi o se questa possibile chiusura è dettata da una logica al ribasso. M., sales advisor part-time dell’area flegrea, mi dice: «Gli affitti in centro sono cari, lo capisco. Dicono che ci trasferiranno ma noi sappiamo per certo che tutti i punti vendita in Campania sono in esubero di personale e in calo di budget, quindi dove ci mandano? A me hanno proposto il trasferimento, che in realtà è un obbligo perché se non accetti devi auto-scriverti una lettera di demansionamento». In pratica l’azienda per non spostarti ti obbliga a dichiarare che, magari a causa di stress, ti demansioni in modo da pagarti di meno. Con il supporto del sindacato M. l’ha spuntata ma, dice, «i problemi ormai sono dietro l’angolo».
Si parla in piazza, animatamente, di come quanto accaduto in altre parti d’Italia (chiusure a Milano, Roma, Molfetta, Bari) stia accadendo anche qui e nelle stesse modalità, senza preavvisi né tutele. Nel 2017 la protesta, a livello nazionale, era racchiusa sotto l’hashtag #fashionrebel e cominciò con ottantanove esuberi. A., un altro rappresentante sindacale, mi racconta che ci sono persone che lavorano qui «da quando al muro c’era solo l’intonaco», che si sono formate qui e negli anni hanno costruito famiglie. Arrivano alcuni poliziotti che invitano a mantenere sgombro l’ingresso di H&M e si inizia a contrattare sull’orario che la questura ha dato per il fine presidio. Nel frattempo, due dipendenti si affacciano dal primo piano della struttura ma nessun responsabile esce a dialogare con i lavoratori e le lavoratrici, anzi, le risorse umane del punto vendita oggi sono andate a Roma.
Cambio lato del marciapiede e mi avvicino ad alcune ragazze che inveiscono contro le persone che entrano in negozio. Una sales advisor, C., con un contratto a ore (tempo determinato, all’inizio di tre mesi e soggetto a rinnovo, tipologia contrattuale attualmente riservata al venti per cento dello staff in H&M Campania), mi racconta di essere arrivata qui stamattina partendo dall’area est e di lavorare a Caserta (punto vendita 332 di Marcianise): «Oggi manifestiamo anche affinché i dipendenti a ore abbiano gli stessi diritti di chi è assunto a tempo indeterminato. Siamo grandi, io ho trentadue anni, e siamo cresciuti con i valori dell’azienda che oggi non sono più rispettati dall’azienda stessa. Potremmo essere una risorsa se ci assumessero e invece passiamo la vita attaccati al cellulare per sapere quando sarà il prossimo turno di tre o sei ore». Interviene L., che riguardo la questione dello stare attaccati al telefono in balia della chiamata, racconta: «Questo è un escamotage che l’azienda utilizza da sempre per non assumere persone a tempo indeterminato, neanche come part-time, così pagano soltanto le ore che lavoriamo. Lo sappiamo due giorni e, a volte, anche un giorno prima».
Nel 2017, nell’ambito della mobilitazione #fashionrebel, i sindacati avevano denunciato il ricorso strutturale dell’azienda al lavoro a chiamata, il job-on-call che a sentire l’azienda è una persona “diretta, dinamica, disposta ad apprendere e di ampie vedute”. Ma ciò che raccolgo in piazza, è totalmente differente. J. è anch’essa una lavoratrice part-time e mi dice che contratti di part-time vero e proprio non se ne fanno più: «Il mio tipo di contratto non esiste più, ora ci sono i job-on-call, tappabuchi che servono a far risparmiare soldi all’azienda». E di questi “tappabuchi” in piazza ce ne sono, benché l’azienda li abbia chiamati a lavorare tutti nell’odierna giornata di sciopero. «Sono contratti a chiamata che non ci danno vita – dice J. –, abbiamo la possibilità di venire a lavorare sapendolo entro ventiquattro ore, e in più lo facciamo sapendo di non avere alcuna prospettiva poiché il contratto vale solo un anno».
Molti, in piazza, speravano che il decreto Dignità dei Cinque Stelle avrebbe eliminato questa forma contrattuale, cosa che non è accaduta. Dopo un anno si è mandati a casa senza nessuna possibilità di inserimento. In piazza oggi ci sono anche madri e qualcuna ha portato con sé i figli. Incrocio una veterana dell’azienda, lavora da molti anni in H&M a Napoli ed è entrata come impiegata. Dopo la maternità l’hanno inserita, automaticamente, in una situazione di “turnistica” (a fronte dell’orario fisso pre-gravidanza): «Mi hanno sbattuta a cento chilometri da casa da un giorno all’altro sapendo che non potevo rifiutare. In seguito sono riuscita a tornare vicino casa ma mi sono dovuta demansionare. Oltre a pagarmi di meno si sono liberati anche di una persona che sapeva molte cose, di una persona competente».
Continuano, i lavoratori e le lavoratrici di H&M, a urlare, fischiare, saltare e passarsi il megafono. Si fa fatica a raccogliere le voci tanto è alto il volume della protesta. Quella di oggi è una piazza di precarietà “nera”, incerta sul futuro, angosciata, e a quanto pare anche indegna di ricevere risposte alle proprie domande dall’azienda che ha formato queste persone ripetendo che i valori erano al centro del lavoro. Una realtà in cui ti minacciano se aderisci al sindacato, se vai allo sciopero, se costi troppo, se vai in maternità, se non obbedisci. Mi avvio a lasciare il presidio, nessuno è uscito dal negozio per unirsi alla protesta né si è visto un capo. Mi allontano, sicura che le proteste non finiranno qui, seguendo l’ondata di mobilitazioni che continua in altre parti d’Italia e non solo (il 23 novembre scorso partiva la campagna “Turn Around, H&M!” per sensibilizzare i consumatori sugli impegni mancati della multinazionale, con azioni a Bolzano, al polo logistico di Stradella e in altre ventiquattro città, inclusa Londra). Alle mie spalle si continua a urlare: «Verità, verità!». (leda marino)