Incontro Diana Donzelli, quarantenne promoter per serate di musica elettronica e techno. Da oltre vent’anni nell’ambiente, prima frequentatrice dei piccoli club underground del centro storico, ora imprenditrice della notte.
Occhi verdi e rossetto che spicca sulla pelle chiara, Diana ha cominciato portando a ballare gli amici alle serate a cui andava ogni settimana. Eventi di nicchia nei piccoli club, organizzati e frequentati da persone spinte da una forte ricerca musicale in giro per l’Europa: Berlino, Francoforte, i Time Warp e i primi Sonar a Barcellona. Sul finire degli anni Novanta, a Napoli, si è formata una generazione di dj conosciuti oggi dovunque: Danilo Vigorito, Rino Cerrone, Marco Carola. Veri e propri laboratori di quegli anni, il Velvet Underground al centro storico, i venerdì al Flakabè ai Ponti Rossi, rimasti intatti nell’immaginario ma oggi sorretti dalla stampella “ex”. L’organizzazione di quelle serate passava per poche persone e aveva un’impronta ben definita. «Ascoltavamo musica elettronica, eravamo proprio snob, non ci volevamo mischiare. Chi c’era, sapeva perché era lì e non altrove».
Raramente in quei tempi a Diana e ai suoi amici entrava qualcosa in tasca. Venivano ripagati dall’organizzare in città serate simili a quelle berlinesi. «In un’epoca senza Shazam, in cui non si poteva riconoscere una canzone in tempo reale col cellulare, non sai la gioia di trovare una traccia ascoltata in Germania dopo giorni, mesi di ricerca nei quali trovavi altri vinili pazzeschi. Ci chiudevamo a casa di Roberto, un nostro amico e scoprivamo l’elettronica ipnotica di Mathew Jonson, i primi dischi di Ricardo Villalobos…».
Quando si tira indietro il cappuccio della felpa spuntano i capelli biondo acceso, corti e neri ai lati. Ci avviciniamo a un bar. Rimango po’ spiazzato quando, oltre a chiedermi di sederci ai tavolini riservati a chi non fuma, ordina una cioccolata calda. Forse accorgendosene, mi informa che aspetta un bambino. «Mi sono fatta largo da sola in un ambiente molto maschilista. Nonostante ci mettessi i soldi, mi occupassi del progetto grafico e portassi alle serate il maggior numero delle persone, ero ritenuta solo una p.r.».
Con Orbeat, l’etichetta nata dall’esperienza nei club underground, alla fine degli anni Novanta Diana e i suoi per la prima volta portano a Napoli e in Italia i più grandi dj della scena europea: Ricardo Villalobos e Luciano, quando ancora erano sconosciuti. «Ora è cambiato tutto. Vent’anni fa una persona che ascoltava Filisdeo non sarebbe mai e poi mai andata a Ibiza. Oggi per riempire un locale il sabato si mischia un po’ di tutto: commerciale, house, techno. Negli ultimi vent’anni si è verificata una commercializzazione della scena musicale notevole, a più livelli. In Italia è scomparso il contesto underground, dove si ascoltava la buona musica elettronica, anche per l’avvento di queste serate confezionate con un po’ di questo e un po’ di quello per riempire il locale. In Europa, l’elettronica si è appiattita sulla techno».
La nostra conversazione viene interrotta dalla telefonata di una sua amica, alla quale, dopo un veloce scambio affettuoso, comunica la recente apertura di un ristorante vegetariano vicino al mare dal nome singolare. «Da quando mio fratello, organizzatore prima di me di serate commerciali, ha iniziato a collaborare con noi, è nata Nice to be. Abbiamo puntato di più sul marketing, cercando però di mantenere alta la qualità di ciò che offriamo. Il risultato è stato sorprendente. Numeri impensabili, che prima ci sognavamo. Quando è venuto Sven Vath, il dj tedesco padre della techno, abbiamo fatto cinquemila persone…».
Se il panorama musicale si commercializza, il business lievita. Diana oggi organizza serate con una media di tre-quattromila persone, con incassi che superano di cinque volte quelli delle serate underground. «Naturalmente come imprenditrice va bene. Come amante del genere… Siamo il paese che paga di più i dj in Europa. Un grande nome che a Berlino suona per tre-quatromila euro a sera, qui prende anche quattro volte tanto. Pasqua, Capodanno, Natale… facci caso questi stanno sempre in Italia. Si è creato uno star system fatto di agenti e promoter, che invece di collaborare si mettono l’uno contro l’altro, moltiplicandosi».
Scavando col cucchiaino le ultime tracce di cioccolata nella tazza, mi anticipa che a dicembre ci sarà un grande evento alla Mostra d’Oltremare, verrà per la terza volta in Italia il resident del Bergain, uno dei locali più famosi di Berlino. «A Napoli dobbiamo fare conto con l’assenza delle strutture. Il migliore locale della città ha un impianto audio pessimo, inferiore rispetto agli standard europei». La credibilità di un’organizzazione, che Diana definisce imprinting, passa per molte cose: prima di tutto la qualità della musica che proponi, poi l’efficacia della grafica dell’evento, l’immagine “fresca” dei collaboratori, dai promoter a chi volantina per strada. Oltre l’immagine, c’è la serietà, il fatto che i collaboratori capiscano di musica e credano nel progetto. In casi come il Cocoricò a Riccione, mi spiega, basta il nome del locale ad attrarre persone, non c’è bisogno di porsi tutti questi problemi. Da ciò dipende, più o meno direttamente, anche il discorso delle droghe. «La singola serata non è certo la causa del consumo, semmai l’occasione perché si manifestino dei sintomi già presenti fuori, nella città. L’imprinting della serata può essere un filtro, ma se, per esempio, eviti di mettere pusher in lista, già è qualcosa». (dario cotugno)