
Per diciotto giorni l’Ecuador è rimasto bloccato: centinaia di manifestazioni in tutto il paese, blocchi stradali che ne hanno paralizzato la produzione e il commercio, scontri tra le forze dell’ordine e i manifestanti. Lo sciopero a tempo indefinito proclamato dalla Confederazione delle nazionalità indigene (Conaie) ha visto una partecipazione massiccia in numerose città e villaggi, non soltanto delle comunità indigene e contadine, ma anche di tutte le categorie di lavoratori, studenti e disoccupati che negli ultimi anni hanno visto aumentare enormemente il prezzo della vita e si trovano con i conti sempre in rosso.
Il governo è stato obbligato a iniziare un dialogo e dopo giorni di inutili tentativi si è arrivati a un accordo con i rappresentanti delle organizzazioni indigene, firmato la sera di giovedì 30 giugno. Il governo si impegna a rispettare sette dei dieci punti proposti dalla Conaie e si riserva novanta giorni per creare un tavolo tecnico e promuovere soluzioni sui punti restanti. In cambio, si sospendono le mobilitazioni e i blocchi stradali nel paese. Le organizzazioni indigene promettono di rimanere attente e di essere pronte a ricominciare con più forza nel caso il governo non rispetti la parola data.
Il bilancio, alla conclusione dello sciopero nazionale, è pesante: secondo l’Alleanza delle organizzazioni per i diritti umani, dopo diciotto giorni di mobilitazioni si contano cinque morti, tutti uccisi dalla polizia durante le manifestazioni, e almeno 335 feriti tra i manifestanti, tra cui numerosi in condizioni gravi. Le forze dell’ordine utilizzano gas lacrimogeni, bombe stordenti, proiettili di gomma e granate esplodenti. Armi non letali, in teoria, ma che di fatto hanno provocato morti e feriti. I manifestanti si proteggono con scudi di fortuna fatti con cartelli stradali, legno, cartone; costruiscono barricate di sassi e mattoni per proteggersi dai proiettili lanciati dalla polizia, improvvisano fuochi in mezzo alla strada con copertoni e ramaglia; il fumo aiuta a resistere contro i gas lacrimogeni. Negli ultimi giorni della protesta, tuttavia, la repressione si è intensificata e il governo ha dato il via libera alle forze dell’ordine per impiegare “l’uso progressivo della forza”. Questa legge, approvata pochi giorni prima dell’inizio del paro, dava maggiori poteri a militari e polizia.
La Procura parla di 162 detenzioni e oltre trecento indagini aperte. Molti media indipendenti dichiarano di aver subito censura e denunciano che il governo abbia utilizzato strumenti per bloccare il traffico dei dati, limitare e controllare le informazioni. I media ufficiali non davano informazioni reali e la gente si informava attraverso i social media.
Il governo annuncia che il paese ha perso almeno cinquanta milioni di dollari al giorno solo nel settore produttivo e che lo sciopero ha più che dimezzato la produzione di petrolio nazionale, con perdite enormi nel settore estrattivo. Le comunità indigene nell’Amazzonia ecuadoriana, infatti, hanno bloccato le strade e obbligato i lavoratori delle compagnie a chiudere più di mille pozzi petroliferi, causando perdite per milioni di dollari al giorno. La lotta dei popoli dell’Amazzonia è stata tra le più forti durante lo sciopero: stanchi di cinquanta anni di politiche estrattive che hanno causato un’enorme devastazione ambientale nella foresta primaria e un aumento spropositato di malattie e problematiche legate alla contaminazione, pretendono la deroga del decreto 95 che prevede l’aumento della produzione petrolifera.
La polizia denuncia che si sono verificati almeno 5.251 fatti considerati illeciti, tra cui blocchi di via, interruzioni di servizio pubblico, danni a beni pubblici e privati. Dichiarano che durante le mobilitazioni sono stati distrutti dieci commissariati e più di cento veicoli tra moto e auto della polizia sono stati danneggiati; venti i mezzi militari distrutti. Risulterebbero feriti 238 poliziotti e 106 militari; 37 poliziotti sarebbero stati sequestrati dai manifestanti durante le varie manifestazioni, ma sono sempre stati liberati qualche giorno dopo senza aver subito violenze. Un soldato è morto durante gli scontri avvenuti a Shushufindi, nell’Amazzonia ecuadoriana, quando un convoglio militare che stava accompagnando un camion per il trasporto del crudo ha attaccato i manifestanti che bloccavano la via. I manifestanti dichiarano che il morto è stato vittima dello stesso fuoco sparato dal convoglio militare.
LO SCIOPERO
Lo sciopero generale è iniziato il 13 giugno, proclamato dall’organizzazione indigena maggioritaria, la Conaie, a cui hanno immediatamente aderito le altre organizzazioni indigene del paese. L’Ecuador è uno stato plurinazionale. Comprende quattordici nazionalità indigene e diciotto popolazioni ancestrali con lingue e culture diverse. Sono più di un milione gli indigeni che si considerano parte delle comunità ancestrali su una popolazione di diciassette milioni. La forza delle organizzazioni indigene in Ecuador è molto importante, i legami comunitari ancora presenti. L’adesione allo sciopero è stata enorme.
Dieci sono i punti rivendicati dalla Conaie, tra questi l’opposizione alle politiche neoliberiste del governo decise con l’Fmi, che intendono tagliare i fondi all’educazione e alla sanità, privatizzare i beni pubblici, tagliare i sussidi ad alcuni prodotti con prezzo calmierato (come la benzina), aumentare la produzione e lo sfruttamento petrolifero e minerario. Tutto questo ha portato alla sollevazione popolare che ha travolto il paese per quasi venti giorni.
Dopo una settimana di mobilitazioni nei territori, lunedì 20 migliaia di persone provenienti da centinaia di comunità indigene sono arrivate nella capitale, scontrandosi diverse volte con le forze dell’ordine che hanno cercato di impedire il loro ingresso in città. Enorme l’accoglienza e la solidarietà dei quartieri popolari del sud, che scendevano in strada per regalare loro cibo e vettovaglie.
Per dieci giorni il centro di Quito è rimasto paralizzato. Migliaia di manifestanti provenienti da ogni regione del paese sono scesi in piazza tutti i giorni, prima nel tentativo di riconquistare la Casa della Cultura e il parco dell’Arbolito, simboli dell’organizzazione indigena in città, e poi di muoversi verso la sede dell’Assemblea nazionale e del palazzo del governo. La polizia ha bombardato con gas lacrimogeni le università e i luoghi di pernottamento dei manifestanti indigeni, nonostante la presenza di centinaia di bambini e anziani. I manifestanti denunciano che le forze dell’ordine hanno sparato colpi d’arma da fuoco almeno in due occasioni senza pretesto, ferendo un signore che stava mangiando davanti all’università centrale e colpendo una donna al braccio che stava trasportando materiale da soccorso su un furgone. Nel tentativo di bloccare le manifestazioni, il presidente Lasso ha emesso tre decreti di “stato di eccezione”, prima coinvolgendo tre province, e poi allargando a nove i territori toccati. Lo stato di eccezione prevede un aumento dei poteri dell’esercito e della polizia, e il divieto di assembramento che, abbinato al coprifuoco imposto dalle 22 alle 5 del mattino, cercava inutilmente di sedare le proteste.
L’ACCORDO
Dei dieci punti proposti dalla federazione dei popoli indigeni, sette sono stati discussi nell’accordo con il governo. Per il momento l’accordo prevede: la riduzione di quindici centesimi del prezzo dei carburanti (nonostante la richiesta fosse di ridurla di quaranta); il rifinanziamento dei debiti del settore agricolo e produttivo fino a centomila dollari, la diminuzione del tasso di interesse per certi tipi di prestiti e il condono dei prestiti fino a tremila dollari. Si rafforzano i meccanismi di controllo dei prezzi dei prodotti basici, per garantire un guadagno minimo a contadini e allevatori ed evitare speculazioni; viene dichiarato in emergenza il sistema di salute pubblica, per inviare immediatamente medicine e aiuti economici agli ospedali e ai centri di salute. Viene derogato il decreto 95 che prevedeva l’ampliamento della frontiera petrolifera, per proteggere i territori e i diritti collettivi dei popoli indigeni; viene riformato il decreto 151, che promuoveva l’aumento dello sfruttamento minerario, e nello specifico viene garantito il diritto alla consultazione previa, libera e informata per ogni comunità, e vietato lo sfruttamento minerario nei territori ancestrali, in aree protette o archeologiche e in zone di riserve idriche. Il governo deroga anche lo stato di eccezione approvato negli ultimi giorni di mobilitazione nelle province amazzoniche. Mancano ancora molti punti da discutere, come il rispetto dei diritti collettivi, per esempio l’educazione bilingue e la giustizia indigena; la non privatizzazione dei settori strategici, come quella della Banca del Pacifico che il presidente Lasso sta attualmente cercando di vendere; un bilancio dignitoso per la sanità e l’istruzione; la creazione di politiche di sicurezza pubblica. Il governo avrà novanta giorni per dare risposte concrete su questi ultimi punti. Questa lista di richieste era stata presentata ormai un anno fa dalla Conaie al governo, ma non era mai stata data alcuna risposta né aperto un dialogo.
INSTABILE EQUILIBRIO
L’equilibrio politico è molto fragile. Il presidente Lasso si è ritrovato quasi senza appoggio in parlamento. Impresario e banchiere, tra i più importanti azionisti della banca di Guayaquil, uno dei responsabili principali della dollarizzazione dell’Ecuador nel 2000 e accusato di frode nel caso dei Pandora Papers, Lasso non è sicuramente tra i presidenti più amati. Dopo poco più di un anno della sua presidenza il paese ha rivissuto un momento di sollevazione popolare contro le politiche neoliberali simile a quello del 2019, e sono in molti a voler vedere cadere il governo. Sabato 25 giugno nella seduta dell’Assemblea nazionale, il blocco di opposizione della Unes ha proposto la destituzione del presidente. Nella votazione di martedì, la petizione non è passata per una manciata di voti (80/92). Se fosse stata approvata, il paese sarebbe andato a elezioni anticipate.
I movimenti indigeni hanno una lunga tradizione nel far cadere presidenti: queste “discese” su Quito per rivendicare i propri diritti, che spesso finivano con il pretendere le dimissioni del presidente di turno, erano usuali prima dell’arrivo al potere di Rafael Correa nel 2007. Anche nello sciopero nazionale del 2019 molti manifestanti volevano la caduta del presidente Lenin Moreno, accusato di non fare gli interessi del popolo ecuadoriano; in quel caso l’esigenza del movimento indigeno era di abbassare il prezzo della benzina, aumentato esponenzialmente dall’abolizione dei sussidi pubblici voluta dal Fondo monetario internazionale. Ma anche in quell’occasione lo sciopero si concluse con un accordo tra la Conaie e il governo, creando, inoltre, non poco malcontento tra le basi dell’organizzazione.
Vedremo come agirà il governo nei prossimi tre mesi. Decine di migliaia di persone sono scese in strada in tutto il territorio nazionale per diciotto giorni, decise a manifestare fino alle “ultime conseguenze”. E in molti non sono contenti dei risultati ottenuti. Se il tavolo tecnico creato non darà le risposte attese in novanta giorni, lo sciopero ricomincerà con più forza e determinazione; questa volta le organizzazioni indigene non accetteranno un dialogo, ma probabilmente protesteranno fino a pretendere la caduta del governo Lasso. (giulia cillerai / monica cillerai)