
Il regionale Bologna-Ravenna è uno di quelli vecchia maniera. La porta per entrare nello scompartimento la devi spingere a mano, i finestrini si possono aprire. Sento il rumore ferroso del treno sui binari. Attraversiamo distese di campi arati e tulipani, le stazioni sono piccoli fotogrammi colorati di un’Emilia Paranoica dai nomi singolari – Godo, Bagnacavallo – dove scendono frotte di ragazzini di ritorno da scuola, pendolari e immigrati. Fa caldo, siamo ai primi di aprile.
Arrivo al Teatro Rasi di Ravenna a metà pomeriggio, è sabato ed è già abbastanza pieno. Il teatro è nato sui resti di una chiesa medievale fondata da Chiara da Polenta dell’ordine delle Clarisse. Nel periodo napoleonico fu sconsacrata e divenne una cavallerizza; per vent’anni è stata anche un ospedale. Da oltre trenta è la sede della compagnia Le Albe fondata da Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, un punto di riferimento per un’intera comunità – teatrale e non.
«Sterco, incenso, nitriti; liturgia, merda, luogo di cura. Le parole chiave del teatro», mi fa notare Ermanna Montanari che per la prima volta quest’anno ha ideato Enter, una “chiamata agli artisti in forma di festival”. Più che festival in senso canonico, una sorta di laboratorio fluido d’incontri, lavori teatrali, mostre, seminari che hanno coinvolto, oltre il Rasi, altri luoghi di Ravenna, come lo studio d’arte del collezionista Danilo Montanari, la Basilica di Sant’Apollinare Nuovo, la multisala Multiplex dove Yuri Ancarani ha voluto proiettare il suo The Challenge (premiato allo scorso festival di Locarno), documentario quasi completamente muto sull’arte della falconeria, riempiendo una sala da cinquecento posti.
Tra gli spettacoli, La vita ferma, ultimo lavoro della drammaturga Lucia Calamaro che ha tenuto anche un partecipato seminario di scrittura; Napucalisse di Mimmo Borrelli, Sleep Tecnique della compagnia di teatro danza Dewey Well. A intervallare i lavori, i “parlamenti d’aprile” – incontri che le Albe organizzano da qualche anno su temi specifici – e la Festa della rivista Doppiozero su “gli irregolari”.
Quando chiedo a Ermanna Montanari di raccontarmi com’è nato Enter capisco che si tratta di un’occasione che va oltre il teatro: «È successo all’improvviso, come se avessi avvertito che qualcosa era un po’ seduto. Ho deciso di fare una chiamata agli artisti. Persone con cui ho collaborato o che semplicemente ho visto e mi hanno colpito. Volevo che si fermassero il tempo giusto per contagiare noi e il pubblico. Il tema mi viene dalla lettura continua di Cristina Campo: figure imperdonabili e irregolari, tanto da non poter neanche “fare scuola”. Come le foto di Antonio Costa [in mostra per tutto il festival nello studio Montanari]: foto di sentieri che non portano a nulla». Marco Martinelli aggiunge: «Una chiamata ad artisti, scrittori, pensatori che non lavorano per il mercato ma che provano a costruire qualcosa di significativo, nel profondo».
L’inutilità (apparente) è, in effetti, un punto di partenza e di ritorno costante di questi giorni: un’inutilità ostinata, legata a doppio giro con un’altrettanto irregolare bellezza. «Gli imperdonabili – continua la Montanari – sono quelli che se ne stanno ai margini di un sistema di moda e di potere e aprono gli occhi sulla bellezza. Si doveva trovare un luogo in cui questa è sontuosa: Sant’Apollinare Nuovo. Oltre l’oro che sorregge la Basilica, c’è anche un sommo atto di narrazione nelle formelle che contengono la vita di Cristo. Bellezza e narrazione sono i due temi dei Parlamenti di quest’anno».
Caratteristica di questo festival è anche il suo movimento centripeto, un girare intorno alle stesse questioni, aggiungendo ogni volta uno spunto, o cambiando angolazione, punto di vista, in un confronto aperto e alla pari tra artisti, studiosi, semplici avventori, di età e generazioni diverse, che in un certo senso prepara anche alla visione degli spettacoli.
«Ho trovato questa parola – continua la Montanari –, ovvero entrata, accesso, dove non ci sono porte chiuse. Enteron in greco vuol dire dentro il corpo, nelle mucose. Entrare in un luogo cavo, una caverna, luogo sconosciuto che non ci corrisponde e che non vediamo, ed è il nostro luogo segreto. Per me la Calamaro è un segreto, Mimmo Borrelli è un segreto, i Dewey Dell sono un segreto. Mi voglio mettere dalla parte dello spettatore. Devo far passare anche lui attraverso il fuoco, anche lui ha una materia da infuocare: il suo sguardo, che deve essere privo di pregiudizi quando entra in teatro. Deve fare quello che fa un artista, dare la vita per attraversare il fuoco».
Il festival è iniziato con Lumen, un rito in cui la Montanari, su contributi sciamanico/sonori di Luigi De Angelis, ha infuocato un varco di accesso nella Basilica di Sant’Apollinare, prima dello spettacolo di Lucia Calamaro: «Un battesimo del fuoco. Gli spettatori entravano come se non fossero mai entrati a teatro, come se prima di entrare avessero avuto bisogno di pulire lo sguardo». Uno spettacolo di tre ore in cui, tra una pausa e l’altra, sono rimasti tutti compatti, come in una liturgia.
Il festival sviluppa una trama di rapporti preesistenti che le Albe tessono da anni sul territorio emiliano e non solo. Questi fili invisibili creano una comunità che è la forza vitale della compagnia. Uno di questi rapporti è con Marco Belpoliti, direttore della rivista e casa editrice Doppiozero che conobbe la Montanari circa trentacinque anni fa «per un’intervista sul suo rapporto con il dialetto su questo sputo di Romagna che è Campiano». Doppiozero ha chiuso il festival con una festa, una serie d’incontri tra scrittori, giornalisti, ancora una volta artisti che nella loro carriera, oltre al successo hanno collezionato anche opere “fallimentari”. Tra questi, un confronto vivace e autentico tra lo stesso Belpoliti e Giovanni Lindo Ferretti, altro rapporto di lunga data per Martinelli e la Montanari: «Giovanni venne a dirci: “noi punkettini vogliamo fare un film”. Aveva visto Confine, preso da un racconto di Marco Belpoliti: un lavoro fallimentare con balle di fieno, nero in faccia fatto col lucido da scarpe. Eravamo nei primi anni Ottanta. Ci trovammo in un teatro abbandonato a Bagnacavallo, e i primi ospiti furono i CCCP che portarono una macchina per far la paglia, Lindo con la sua cresta. Facevamo le stesse cose, loro con musica e noi a teatro», raccontano Martinelli e la Montanari. Se Lindo Ferretti ha aperto alcune considerazioni sulla sua Emilia post-paranoica, tra il recente fallimento del sistema delle cooperative rosse, il suo tentativo (fallimentare in partenza) di salvare una mandria di cavalli selvatici «belli e inutili» nel mezzo della «mutazione antropologica che stiamo vivendo», l’incontro più folgorante si è consumato l’ultimo giorno di Enter, iniziato con la Piccola liturgia per Santa Chiara, lavoro teatrale creato per il festival dall’Atelier dell’Errore. Quest’associazione, guidata dall’artista visivo Luca Santiago Mori e Nicole Janigro, da oltre dieci anni lavora a Reggio Emilia con il reparto di neuropsichiatria infantile. Regola numero uno per i piccoli partecipanti dell’atelier: disegnare, e farlo senza mai staccare il pennarello dal foglio. Il risultato sono piccole opere d’arte disarmanti, della grandezza di quattro-cinque metri (a volte, racconta Santiago Mori, risultato anche di un anno di lavoro), a tema rigorosamente animale. Alcuni di queste hanno fatto da sfondo a incredibili drammaturgie scritte e recitate dai ragazzi che hanno letteralmente infiammato la platea del Teatro Rasi.
Enter non ha avuto fondi. È un festival adottato da tutte le persone che l’hanno generosamente abitato, è nato da rapporti esistenti ma sicuramente ne ha generato di nuovi, anche dal punto di vista locale – pensiamo alla scelta/scommessa di aprire anche al pubblico mainstream della multisala con cui Le Albe prima d’ora non si erano mai interfacciate. Le persone si sono incontrate, parlate. In effetti, nella miriade di festival – teatrali, letterari – di cui l’Italia è piena (alcuni di questi sono lautamente sovvenzionati con soldi pubblici) c’è sempre meno spazio per la produzione indipendente e lo scambio artistico puro, ma piuttosto queste occasioni diventano eventi/vetrina: inconsistenti, poco includenti, sempre più per addetti ai lavori. Enter sembra invece una “no fly zone” resistente e anarchica – e assieme ci metterei anche l’appuntamento annuale a Calitri di Vinicio Capossela ed Efestoval di Mimmo Borrelli (e forse non è un caso che queste realtà siano in stretto contatto tra di loro) – di artisti che provano a dare peso a quest’apparente inutilità riuscendo a creare uno spazio di condivisione, riflessione, narrazione reale. E, dato ancora più interessante, ci riescono lavorando sul territorio, alimentando una trama di rapporti sana, autentica, lontana dai luoghi del potere e spesso da istituzioni che sempre più raramente sanno intercettare le energie vive di un luogo. A questo e altro penso una volta salita sul regionale che da Ravenna mi riporta a Bologna. Pensieri lenti. A bassa velocità. (francesca saturnino)