
Siamo stati due settimane in Grecia, percorrendo a ritroso una parte del viaggio che ogni giorno affrontano centinaia di persone in fuga dai loro paesi di origine. Da quando Italia e Spagna hanno firmato accordi con le nazioni del Nord Africa per bloccare le partenze dei migranti che cercano di raggiungere l’Europa, la Grecia è diventata la principale porta d’accesso nel vecchio continente; ma il paese, travolto dalla crisi economica e regolato da leggi severissime nei confronti dei migranti, è solo un punto di passaggio e per molti non è considerato neanche Europa.
Abbiamo visitato i porti che affacciano sull’Adriatico, Patrasso e Igoumenitsa, dove i migranti tentano il passaggio del mare verso l’Italia, imbarcandosi illegalmente sui traghetti. Poi ci siamo spostati in Tracia, nella regione che confina con la Turchia, attraversata dal fiume Evros, dove cinque carceri detengono le persone senza documenti che attraversano la frontiera. Siamo stati invitati a pranzo nella tenda di Idiris, uno dei tanti giovani che vivono nell’accampamento improvvisato sulla collina alle spalle di Igoumenitsa. Abbiamo trascorso un pomeriggio tra le rotaie della stazione abbandonata di Patrasso, dove decine di ragazzi africani sopravvivono rovistando nell’immondizia e abbeverandosi da un’unica fontanella. Abbiamo parlato attraverso le sbarre di un cancello con i migranti reclusi nei centri di detenzione allestiti al confine.
In ogni luogo dove siamo stati abbiamo incontrato persone diverse, ognuna con una propria storia alle spalle, unica e irripetibile. Il solo filo rosso che lega i loro racconti è la negazione di un diritto: quello di circolare liberamente per il mondo. Questa è la storia di un ragazzo chiamato Rockstar.
Soufli, 12 aprile. Vaghiamo per le strade di Soufli, piccolo crocevia perso tra le campagne della Tracia, dal lato greco del confine, a pochi chilometri dalla Turchia. Soufli è la sede di uno dei numerosi centri di detenzione per migranti disseminati lungo il confine. Il centro di detenzione non è altro che una piccola stazione di polizia, blindata e sorvegliata da decine di poliziotti, dove i migranti catturati nell’atto di attraversare la frontiera vengono rinchiusi a centinaia.
Abbiamo avuto notizia che oggi verranno rilasciati dei migranti dal centro, vorremmo incontrarli, parlare con loro, ma ci teniamo alla larga dalla stazione di polizia, temendo che la nostra presenza possa ritardarne il rilascio. Prendiamo posto nel bar della biglietteria degli autobus, passaggio obbligato per quanti debbano dirigersi ad Atene; per quanti hanno i soldi per pagare il biglietto, si intende. L’accoglienza del gestore non è delle più amichevoli: «Siete giornalisti, siete arrivati a decine per questi quattro immigrati, ma nessuno si preoccupa della crisi greca. La Grecia affonda ma a voi interessano solo gli afgani». Inutile discutere, cambiamo aria e riprendiamo a girovagare per i vicoli. In una stradina laterale vediamo tre ragazzi in attesa di fronte all’ingresso di un albergo di terz’ordine. Dall’aspetto potrebbero essere afgani, o iraniani. Ci avviciniamo con circospezione. Loro però ci salutano gentilmente, sono afgani e parlano un ottimo inglese, senz’altro migliore del nostro. Accettano di buon grado di parlare con noi, «ma non adesso, dobbiamo riposare e fare una doccia, siamo in viaggio da dieci giorni. Siamo appena stati rilasciati dal centro e ci fermiamo per una notte in questo albergo, prima di ripartire per Atene. Ci vediamo alle 17 qui davanti». «Come vi chiamate?», chiediamo noi. «Rockstar», ci risponde sorridendo uno di loro.
Arriviamo all’appuntamento con qualche minuto di anticipo, chiedendoci se il nomignolo con cui il ragazzo afgano si è presentato sia il preludio a una sua mancata presenza, una piccola presa in giro per liberarsi di noi. Invece dopo poco arrivano, indossano vestiti puliti, occidentali, sorseggiano Redbull. Sembrano pronti per una serata in discoteca. Ci raccontano di aver cambiato albergo perché quello dove li avevamo incontrati era davvero indecente. Ci invitano al loro nuovo albergo, per poter parlare in tranquillità. Siamo interdetti: la situazione non risponde allo stereotipo di disperazione cui siamo preparati, abbiamo di fronte persone tanto più simili a noi di quanto non credessimo. Li seguiamo in albergo dove il proprietario fa di tutto per risultare sgradevole, impedendoci di salire nella camera dei ragazzi, alzando il volume del televisore oltre ogni limite di sopportazione, vietando a uno di loro di accendere una sigaretta (in Grecia il divieto di fumare è disatteso nella quasi totalità dei locali pubblici).
«Rockstar era il soprannome che le truppe statunitensi mi hanno dato, ho lavorato per loro come interprete per nove anni – ci racconta il ragazzo della mattina –. Mi invitavano sempre nei loro locali, vivevo con loro, ero trattato come uno di loro. Ero pieno di ragazze, vivevo bene a Kabul. Poi i talebani hanno iniziato a minacciare me e la mia famiglia, ho subito tre attentati ai quali non so neanche io come sono scampato. Ho chiesto protezione ai militari, speravo di poter essere mandato negli Stati Uniti, ma loro mi hanno dato delle pacche sulle spalle, dicendomi di stare tranquillo che non mi sarebbe successo niente». Così Rockstar decide di partire, spinto anche dalla famiglia, che teme ripercussioni per gli altri fratelli. Con suo cugino e un amico di famiglia, poco più che quindicenne, attraversano l’Iran per raggiungere la frontiera con la Turchia. «Alla frontiera la polizia turca ci ha sparato contro, rincorrendoci tra i cespugli. Siamo rimasti nascosti per dieci ore, fino a quando non abbiamo più sentito rumori. Mentre eravamo nascosti lui – dice rivolgendosi al ragazzo più giovane, che insieme al cugino assiste in silenzio alla conversazione – ha avuto una crisi isterica, temeva che saremmo stati uccisi tutti. E invece siamo qui, ce l’abbiamo fatta, siamo in Europa».
Durante il tragitto il gruppetto è stato spogliato di quasi tutti i soldi messi da parte per il viaggio. «Appena attraversata la frontiera abbiamo incontrato un uomo che ci ha ospitato in una casetta piena di escrementi, dove chissà quanti altri avevano dormito prima di noi. Duecentocinquanta dollari a notte, prendere o lasciare. Cosa dovevamo fare? C’era la polizia turca che ci cercava, se ci avessero preso saremmo stati consegnati alla polizia iraniana, non oso immaginare con quali conseguenze». Altri profittatori come questo hanno estorto a Rockstar quasi tutto il denaro, oggi gli restano in tasca solo duecento dei seimila dollari con cui era partito.
Il primo impatto con l’Europa è stato con la polizia, che li ha rinchiusi per due giorni in una cella nella quale non c’era neanche lo spazio per dormire sdraiati. «Siamo rimasti seduti tutto il tempo, senza mangiare né bere, ascoltando le urla degli altri detenuti che dalle altre celle ci insultavano e minacciavano. Ora siamo in Europa, ma tutto è molto diverso da come lo immaginavamo. Non capiamo perché siamo stati rinchiusi in quella cella, in quelle condizioni. Non capiamo l’odio che vediamo negli occhi della gente. Cosa dovevamo fare, restare in Afganistan e lasciarci ammazzare?». Il senso di impotenza ci invade. A mala pena riusciamo a salutarlo e ad augurargli buona fortuna: «Good luck Rockstar». «No, I’m not Rockstar anymore», ci risponde con un sorriso amaro. Rockstar non è più tale, e lo sa. Ora è uno dei tanti disperati perduti sulle strade della Grecia, cercando la strada per ricominciare a vivere. (marzia coronati / elise melot / ciro colonna)