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scuola
14 Maggio 2020

Foto di classe. Appunti dall’anno scolastico in corso

Marilisa Moccia
(disegno di dalila amendola)

È lunedì, la giornata più pesante della settimana. Si inizia alle 9. Le ore di lezione per me sono due: la prima è di epica in prima media, la seconda di antologia in seconda. Per gli studenti sono tre ore al giorno.

Ai problemi di connessione, si aggiungono i ritardi. Qualcuno non riesce a svegliarsi in tempo, molti restano fino a tarda notte in chat con i compagni e oscurano lo schermo per non farsi vedere in pigiama, restando comunque dormienti per tutta la durata della lezione. Lo stress a cui siamo sottoposti tutti è elevatissimo e appellarsi a un rispetto della forma non credo gioverebbe. È chiaro che il bioritmo è alterato e quello degli adolescenti o preadolescenti lo è in maniera maggiore. Una mamma mi invia un messaggio su Whatsapp per scusarsi e mi ringrazia di non aver sgridato suo figlio per essere entrato nell’aula virtuale a metà lezione.

Propongo ai ragazzi di fare un gioco. Devono chiudere gli occhi, immaginare un colore e un sentimento e raccontarmi quello che avvertono. Il primo a rispondere in chat è G., che trovo sempre più stanco e uggioso: «Io provo tristezza data la situazione, poi divertimento perché gioco a pallone, poi rabbia per non poter uscire. Il colore è arancione perché c’è un po’ di felicità e un po’ di tristezza. Visto che non abbiamo niente da fare, in famiglia parliamo tanto. Così tanto che a volte non parliamo più perché non abbiamo niente da raccontare, tipo come è andata a scuola o a lavoro».

G. è un bambino vivace e sveglio, lo descriverei così se la situazione fosse normale. Una volta, quando ancora frequentavamo gli ambienti scolastici, gli chiesi di correggere un testo. Lesse con partecipazione e ottima espressione un intero esercizio dal suo quaderno. Quando mi avvicinai al suo banco, la pagina da cui leggeva era bianca.

Questo episodio rende conto dello scarto emotivo che vivono i ragazzi in questo momento. I sentimenti che emergono nei discorsi di tutti sono la noia e la rabbia: «Io preferisco svegliarmi un’ora prima per andare a scuola che fare le lezioni così». Molti raccontano di litigi con i genitori. La libertà di movimento, il loro diritto al gioco, alla crescita sana, al confronto con gli altri ragazzi sono momentaneamente sospesi e con essi la presa in cura della loro emotività e più in generale del loro benessere psicologico. Ciò che credo sia più duro da accettare per loro è che il pericolo non è tangibile; il divieto di uscire e di tornare alla socialità è ciò che li logora. Alla rabbia e alla noia, che sanno riconoscere, si aggiunge il sentimento della frustrazione che non sanno ancora nominare.

Da docente, e credo sia un discorso generale, non ho risposte, non so se, escluso l’aspetto della didattica, quando interagisco in questo campo minato che si affaccia sulle loro camerette, utilizzo l’approccio giusto. Posso affidarmi alla mia esperienza, fare ricorso al mio bagaglio di competenze nell’individuazione dei miei stati d’animo, ma potrebbero essere strumenti inappropriati. Chiedo conforto a colleghi più grandi e più esperti di me, ma i dubbi restano e sono vicendevoli.

L’insegnamento è una relazione osmotica e in un’emergenza come questa lo è ancora di più. Se all’interno di un laboratorio l’osservante è neutro, qui la relazione tra docente e alunni è completamente fondata sull’empatia, più di quanto venga normalmente richiesto, e io non posso lasciare fuori la mia soggettività e neppure il mio privato domestico. Entriamo tutti reciprocamente in luoghi non neutri, ma intimi. La privacy è abbattuta perché è necessario che gli studenti riescano almeno a percepire la presenza in video, al di là del mio legittimo diritto alla vergogna.

Un giorno P. mi ha chiesto: «Prof, ma là dietro, su quello scaffale, c’hai i lego?». Erano degli orecchini, trasfigurati dalla sua immaginazione.  Qualcuno nota che mi sono tagliata i capelli. «State benissimo prof. Taglio bambino quanto vi pigliate?», chiede S. facendoci ridere. Hanno fatto la conoscenza con la mia gatta che ha partecipato come ospite a una lezione perché si chiama Eris e, come prontamente si sono ricordati, l’Iliade è cominciata a causa sua. 

La seconda ora del lunedì, la dedico a parlare di salvaguardia dell’ambiente. Leggo ai ragazzi di seconda media un racconto di Sepúlveda, Balene nel Mediterraneo che gli piace moltissimo. Se c’è un vantaggio nel fare lezione in questo modo è che posso abbandonare il libro di testo in adozione e sceglierne uno dalla mia libreria per adattarlo a quello che loro mi chiedono. Le lezioni a distanza si affidano molto all’improvvisazione. Spesso sono loro a chiedermi di parlargli di un argomento che gli interessa e se posso lo faccio volentieri. Gli studenti di questa scuola vengono da una delle aree più inquinate della Campania. A ottobre scorso sono scesi in strada con i loro genitori per chiedere la bonifica di Cava Alma, una cavità tufacea riempita di rifiuti durante lo scempio delle ecomafie avvenuto negli anni Novanta, che, complice la chiusura estiva delle attività commerciali, è stata data alle fiamme nel luglio scorso e ha continuato a bruciare per diversi mesi rendendo irrespirabile l’aria nei pressi della scuola. Non stupisce dunque che siano particolarmente avvertiti in temi di disastri ambientali e di tutela degli animali.

Propongo loro di riflettere sui cambiamenti che l’assenza dell’uomo sta apportando all’ecosistema e cosa possiamo imparare noi tutti da questa quarantena. L’elaborato di A. è stupefacente. “Gli animali stanno tornando per le strade, si stanno riprendendo tutto quello che era loro prima che gli umani li cacciassero e si prendessero i loro territori. Nel mare sono tornati i delfini e tutti gli animali adesso, mentre noi siamo in casa ad annoiarci, sicuramente si staranno divertendo e sono molto felici che noi non ci siamo perché non gli serviamo e siamo un disturbo per loro. Se i pesci potessero comunicare ci farebbero una serie di regole contro e l’insieme di queste regole si chiamerebbe I diritti del pesce e del cittadino di mare. Le loro regole sono: 1. Gli umani non possono e non devono oltrepassare i nostri spazi privati e quelli dedicati alle nostre famiglie. 2. Voi umani dovete pescarci solo in caso di assoluta necessità. State pescando troppo! Non riusciamo a sopportare il trauma legato alla morte di molti nostri cari. 3. La terza regola riguarda tutti gli animali, non solo quelli marini ed è questa: se voi umani trovate uno spazio dove costruire case fatelo, ma solo se lì non ci sono le case degli animali. Se ci sono, trovatevi un altro posto. Immaginate voi di essere al posto degli animali e che tornando a casa non la trovate più. Detto questo, noi già sappiamo che quando finirà questo periodo ci tratterete come prima e che le nostre regole non serviranno a nulla. Quindi speriamo che questo periodo per voi duri ancora per un po’”.

La restituzione dei loro racconti contiene sempre più di quanto si riesca a immaginare. Come nello scritto di A., il lutto ritorna come tema di fondo, ma accanto a esso appare la speranza e la necessità di trovare un lato positivo e solidarizzare con l’essere indifeso.

Quando, durante la lezione, a uno studente di nome C. correggo un “avvolte” in luogo di “a volte”, questi utilizza la chat privata per dirmi: “Prof, faccio schifo!”. So che è un ragazzo molto sensibile e non scherza nel rivolgersi a se stesso in questi termini. Parlo a tutti loro degli errori creativi di Gianni Rodari e mentre faccio una breve ricognizione chiedendogli come si sentono oggi, C. finge un problema di connessione. Pochi minuti dopo mi ricontatta in privato: “Prof, scusi se non ho risposto e ho staccato l’audio. Mi viene da piangere e ho vergogna davanti a tutti”. Gli dico di non reprimere quello che sente e di provare a raccontarlo e a scriverlo. Gli dico anche che è nella normalità di quello che stiamo vivendo sentirsi un po’ tristi e anche in imbarazzo con gli altri.

Abbiamo di fronte bambini di dodici anni e non tutti sono a proprio agio con la propria immagine, con il proprio corpo, con il confronto in video coi coetanei. Non tutti vogliono fare gli youtuber e l’esposizione video a cui li stiamo sottoponendo non credo sia sana. Beninteso, io non ho soluzioni, ma forse rilevare fin da ora le criticità di questo sistema, che non abbiamo scelto e che ci è stato e ci siamo imposti pur di mantenere vivo il contatto con i nostri alunni, ci aiuta a migliorarne le terribili tare e a prendere una posizione critica nei riguardi della didattica futura, quando si dovrà discutere del ricorso alla tecnologia e di quanto e come possiamo adoperarla. (marilisa moccia)

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