
La riviera di Ponente è stata sacrificata alla civiltà del ferro. Le acciaierie e i cantieri navali sono oggetto da quindici anni di una dismissione che ricorda quella di Bagnoli. Carlo, con i suoi cani, custodisce un’area di container e capannoni fatiscenti
Genova è una città vittima dei suoi chiaroscuri disegnati dalla luce che si inerpica tra i carruggi e le fabbriche ormai dismesse del litorale di Ponente. Il sole si insinua negli spazi dove si accavallano costruzioni di epoche diverse, testimoni di una città cresciuta seguendo lo sviluppo del porto e il sogno industriale del Novecento.
La città ha più anime che si guardano in cagnesco. Il centro antico arroccato tra colline e mare, negli ultimi anni protagonista di una ristrutturazione terziaria con il turismo calato dall’alto. Poi il porto, con i terminal delle crociere e dei traghetti fino ad arrivare ai moli costruiti dal fascismo sul litorale di Sanpierdarena, una delle cosiddette delegazioni, quei quartieri un tempo comuni autonomi e diventati nel 1926 parte della grande Genova, in seguito agli immensi lavori di scavo per abbattere la collina che li separava fisicamente dalla città. I moli e le darsene Tripoli, Etiopia, Libia, Mogadiscio, Massaua, testimoniano il delirio coloniale italiano. Ancora oggi sono spazi commerciali dove vengono scaricati carburanti, oli industriali, merci ferrose e container. Negli anni lo spazio portuale ha penetrato l’entroterra assumendo la forma di piazzali di movimentazioni e stoccaggio di merci, di District Park logistici del nuovo immenso terminal container Vte di Voltri, il più importante del sistema portuale ligure. Il simbolo della città è il faro – la lanterna – che spicca dal promontorio di San Benigno, il confine tra la città tout court e le sue delegazioni.
La riviera del ponente genovese è stato sacrificata alla civiltà del ferro che ha portato alla costruzione di acciaierie e cantieri navali. Una realtà che ha riempito il tessuto sociale della città di un’anima operaia definita, caratterizzando (insieme ai portuali e ai marginali del centro storico) la sua storia recente. La roccaforte dell’industria pesante ligure è tra i quartieri di Cornigliano e Campi, diventate da circa quindici anni il teatro di una dismissione che ricorda quella dell’Italsider di Bagnoli, di proprietà per altro della stessa famiglia Riva, i signori dell’acciaio italiano. L’Ilva genovese non è stata del tutto dismessa, continua la produzione “a freddo”. In poco più di due anni l’altoforno e i gasometri che sfregiavano il panorama costiero sono stati smantellati. Una società a partecipazione statale – con fondi di regione, comune e provincia – Per Cornigliano, assai simile alla napoletana Bagnoli Futura, ha rilevato la gestione delle aree interessate e ne governa riqualificazione e bonifica. Prima che l’ente prendesse possesso dell’area, racconta un ingegnere responsabile della bonifica: «I Riva hanno portato via tutto il ferro che ancora poteva essere utilizzato. Una mattina tecnici specializzati di una società francese iniziarono a tagliare le lamiere della vecchia fabbrica, sradicarono le rotaie che portavano i vagoni verso gli stabilimenti, in poco meno di due mesi tutto il ferro riutilizzabile fu portato a essere fuso nuovamente negli stabilimenti rimasti operativi». I testimoni di quei giorni raccontano di un paesaggio infernale costellato di pennacchi di fumo, fiamme ossidriche e scoppi ripetuti dovuti a improvvisi incontri tra gettiti di gas e fiamme libere. Laddove c’era la fabbrica, entità produttiva e luogo di produzione sociale sorgerà uno svincolo autostradale e, forse, una struttura ospedaliera.
Alle spalle di Cornigliano, seguendo il corso del torrente Polcevera che risale la valle omonima, si distende il quartiere di Campi, altro esempio di dismissione o meglio, di trapasso da un’economia industriale verso il terziario avanzato segnato dalla produzione logistica. Per arrivarci bisogna attraversare Sanpierdarena, percorrendo le strade contrassegnate da una toponomastica evocativa. Si può salire da Via Giacomo Buranello, comandante partigiano, oppure prendere via Antonio Pacinotti, l’inventore nel 1858 della dinamo, per poi imboccare via Paolo Reti, partigiano e membro del Cln, operaio dell’Ansaldo di Genova trucidato dalle brigate nere nel lager della risiera di San Sabba. A Campi si continua su via Walter Fillak, commissario politico della brigata Garibaldi ligure, impiccato anch’egli dalle squadracce fasciste. Si attraversano luoghi dove un tempo gli stabilimenti delle fabbriche occupavano gli operai meridionali arrivati a frotte nel secondo dopoguerra. Adesso gli stessi luoghi sono silenziosi e osservano i container e le cisterne della logistica integrata scorrere su strade e rotaie verso il Piemonte, la Lombardia e la core area dell’Europa occidentale. I capannoni dell’Ikea, del Mercatone Uno, di Castorama hanno preso possesso dei terreni votati per più di un secolo all’industria pesante.
La landa della dismissione si addentra nella Valpolcevera. Un groviglio di binari e carreggiate sfilano risalendo il torrente. La valle è un susseguirsi di spazi adibiti a punti di interscambio. Uno è il piazzale di Fegigno, seimila metri quadrati da cui partono due tracce ferroviarie frettolosamente “tombate” con asfalto. Fegigno era destinato a diventare lo spazio di interscambio di container movimentati con i treni, in un affare che coinvolge le Trenitalia, la società di gestione dei binari Rfi e la Terminal Gest, una ditta di logistica implicata in più casi di smaltimento abusivo di rifiuti nocivi. A Fegigno dal 2001 sarebbero dovuti passare diecimila container, ma dalle palazzine rosa che ospitano gli abitanti dei tre condomini che vi si affacciano ne avranno visti muovere non più di trenta. La metà dei quali giace ora abbandonata e svuotata all’ombra di un capannone fatiscente. Per un paio d’anni in quest’area ci ha vissuto, nella solitudine di un cimitero, una famiglia di immigrati irregolari cileni poi scacciati dalla polizia, finché dell’area ha preso possesso il custode con i suoi due cani: Carlo, che è anche il prestanome della Terminal Gest, titolare della concessione dell’area. Al principio non ci viveva, si occupava dei cani e sorvegliava l’andirivieni dei tir che utilizzavano abusivamente l’area.
Carlo è nato a Via Prè, strada del centro storico nota per i suoi traffici, puttane, contrabbando e presenza di immigrati prima meridionali e poi extracomunitari. Ha vissuto tra i carruggi fino a vent’anni in una casa dalla porta senza serratura, munita soltanto di un sottile “spaghetto” di metallo per evitare gli spifferi. Divenuto maggiorenne – a ventuno anni – trovò moglie e si trasferì dalle parti di Cornigliano, nelle nuove case di edilizia popolare. Poi per decenni ha girato il mondo seguendo il suo mestiere di riparatore navale. I suoi occhi ricoperti da una sottile cataratta, ricordano i cantieri del Golfo Persico, degli Stati Uniti e del Nord Europa. Centinaia di scintille di saldatrice gli sono passate davanti, decine di navi sono state prese in cura dalle sue mani callose. Poi un giorno il suo nomadismo operaio è terminato a Genova, o meglio a Fegigno, dove ha messo radici sempre più profonde.
Adesso la sua casa è l’area retroportuale dove si prende cura di un dug master dalle ruote sgonfie e di un forklift dalle benne arrugginite. I mezzi che servono a sollevare e spostare i contenitori suggellano l’abbandono così come i container esposti alle intemperie. Un simulacro post-industriale che nel tempo è diventato il rifugio di Carlo, il capobranco, e dei suoi quaranta bastardi neri, un dobermann e un pastore tedesco bianco. Il cancello d’accesso è chiuso da una catena doppia e i cani vi si accalcano ogni volta che un visitatore sbatte sulle sbarre per entrare. Di persone ne vengono poche in realtà, una donna porta una volta a settimana avanzi di carne che Carlo fa bollire in una grossa marmitta riscaldata dal fuoco di due ceppi di legno trattato. Il capannone che avrebbe dovuto proteggere colli di merci da imbarcare, perde lentamente pezzi che diventano combustibile per la cucina da campo improvvisata. La moglie se n’è andata qualche anno fa, o come lui sostiene «l’ha dismessa».
Le vecchie industrie ormai fungono da ripari improvvisati per gruppi di immigrati clandestini e senzatetto. Capannoni abbandonati vengono riutilizzati in maniera informale, segni di vita in una landa dove regna il silenzio e l’abbandono. In tanti, da Campi proseguendo verso la riviera di Ponente, dormono fianco a fianco con amianto sfilacciato dal vento di libeccio che ne fa granelli invisibili. La maccaia, – residuo di scirocco tipico di Genova – non prende forma sulla costa, battuta da un vento incessante che di volta in volta arriva dal mare o dalla montagna incombente.
I palazzi popolari della zona si sono progressivamente svuotati, da alcune finestre pendono fili legati ai cavalcavia ferroviari usati per stendere biancheria diventata gialla per l’uso. Il cimitero dei container testimonia il disequilibrio della dismissione incontrollata, l’inefficacia di politiche di riconversione che lasciano spazi troppo spesso privi di un reale progetto di riutilizzo pubblico, e quindi in preda a usi privati votati al profitto. La città si indigna a scatti per l’abbandono, il porto perde traffici, i container conquistano sempre di più la linea costiera, mentre Carlo congela i cadaveri dei suoi cani più anziani, in attesa di portarli all’inceneritore. Il container freezer è l’unico ancora funzionante, chissà cosa conteneva priva di diventare un loculo collettivo di bestie dismesse. (-ma)