
La rivoluzione è stata sconfitta, i patrioti che nel 1849 hanno combattuto per la Repubblica Romana si disperdono per la penisola, provano nuovamente ad assaltare il potere asburgico in una pletora di micro-insurrezioni farsesche, s’illudono che la monarchia sabauda aiuterà la causa nazionale, litigano tra di loro, finiscono in prigione, subiscono torture, tradiscono. È questo il mondo narrativo de Gli anni del coltello di Valerio Evangelisti, un on the road risorgimentale che da Roma ci porta a Faenza e a Ravenna, poi a Genova, Milano, Bologna e Parma.
Il protagonista di questa nuova avventura – sequel di 1849. I guerrieri della libertà e prequel del ciclo monumentale del Sole dell’avvenire – è un terrorista etico che uccide nel nome della repubblica e del verbo mazziniano: Giovanni Marioni, detto Gabariol. Si tratta di un personaggio amorevole con la sua compagna Marietta, ma spietato con i nemici: essi vanno giustiziati in serie a colpi di pugnale, affinché sprofondino nella paura e nella confusione, infondendo nuovo coraggio ai resistenti sconfitti. Vestito con mantello e copricapo a larghe falde, Gabariol è un eroe popolare affascinante e feroce che nella sua lunga odissea di sangue non subisce mai una vera e propria svolta coscienziale. Egli rimane sempre se stesso, ciò nonostante gli eventi lo obbligano a confrontarsi con le contraddizioni di una rivoluzione che non affronta la questione sociale e spinge continuamente i patrioti a farsi massacrare per seguire gli appelli alla lotta armata di un partito repubblicano ormai trasformato in Compagnia della morte.
Quello di Evangelisti è un Risorgimento salgariano, popolare, oscuro e lontano da ogni retorica. Lo si ritrova difficilmente nei manuali, nonostante gli eventi narrati nel romanzo ripercorrano fatti storici accaduti nella prima metà degli anni Cinquanta del XIX secolo. A eccezione di Gabariol e di Folco Verardi (protagonista del precedente romanzo dedicato alla Repubblica Romana), la miriade di personaggi che affollano la narrazione, anche i più buffi (godibilissimo il caporale ungherese Mattias Gergics), sono esistiti realmente. Per il resto sono presenti anche in questa opera alcuni elementi ricorrenti della poetica sociologica dello scrittore bolognese: le osterie – con il loro correlato di cultura popolare enogastronomica, canora e immaginaria – come casematte del tessuto sociale antagonista; l’agency femminile come miscela sorprendente di radicalità sovversiva e pragmatismo; il romanzo storico come dispositivo multistrato che sotto una narrazione fluida e d’intrattenimento, cela – per chi sia interessato a scoprirla – una profonda analisi dei vissuti umani che si dipanano dalla conflittualità sociale. A tal proposito, dopo aver letto Gli anni del coltello, provate a pensare all’Italia dei primi anni Ottanta del ventesimo secolo. Pensate alle aspettative di un mondo migliore, durate per un decennio e svanite nell’arco di pochi mesi, alla militarizzazione dello scontro politico, alle leggi speciali, ai cinquemila prigionieri politici, alle sparizioni forzate, agli stupri e alle torture appurate nel corso di processi cui non seguirono pene per i colpevoli. Pensiamo ai milioni di uomini e donne che dopo aver assaporato l’ebrezza di una vita autentica rifluirono nel privato, nell’abiura, nella depressione, nell’eroina, nella clandestinità, nell’autoreferenzialità e poi, in molti casi, perfino nella delazione.
Con Valerio Evangelisti il piacere della lettura e lo scandaglio dei versanti più dolorosi e oscuri dell’avventura umana viaggiano sempre in perfetto accordo. (luca cangianti)