
Durante l’ultimo mese, la situazione a Hong Kong si è fatta più difficile, e sempre più difficile diventa anche capire cosa stia accadendo. Il governo cinese, che ha ormai optato per una tattica non interventista, ha infatti speso molte energie per imporre la propria narrazione delle proteste, sia nel paese che all’estero.
Nei cortei di fine agosto, gli episodi più violenti avevano riguardato agenti in borghese infiltrati tra i manifestanti, violenze scoperte e poi confermate dalla polizia. Una tattica, dicono le forze dell’ordine, messa in atto per fermare le frange violente dei manifestanti, ma che ha dato adito a molti dubbi sulla condotta degli stessi agenti durante le manifestazioni, ai fini di screditare lo spirito pacifico della protesta. Da quel momento hanno cominciato a venire fuori immagini e video di agenti/manifestanti intenti a lanciare bottiglie molotov o a vandalizzare stazioni della metropolitana, per poi ricongiungersi con i propri colleghi in vicoli più nascosti per evitare di essere ripresi.
Il “campo” di Prince Edward
Durante le proteste del 31 agosto la polizia ha chiuso la stazione metropolitana di Prince Edward per utilizzarla come campo base dove condurre i manifestati arrestati, campo dove – sostengono alcune voci interne alla protesta – alcuni giovani sarebbero morti a causa delle violenze subite.
Nei giorni successivi, numerosi manifestanti hanno chiesto alla compagnia di trasporti MTR di pubblicare le registrazioni delle telecamere di sicurezza per verificare la fondatezza delle accuse. Questo non è avvenuto, a nulla sono servite le smentite ufficiali e per giorni i manifestanti hanno continuato a lasciare fiori di fronte all’ingresso alla stazione, come tributo alle possibili vittime. Sebbene a oggi nessuna prova sia emersa a supporto di questa tesi, né siano stari resi noti i nomi delle vittime o delle famiglie che ne lamenterebbero la scomparsa, il fatto che l’opinione pubblica ancora non si scrolli di dosso questo dubbio dà un’idea dell’atmosfera che si respira in città.
Una partita a scacchi
Il 4 settembre, dopo mesi di scontri, feriti e violenze, Carrie Lam ha finalmente annunciato il ritiro della proposta di legge all’origine delle proteste, annunciando la creazione di una piattaforma di dialogo tra le parti, per cercare di superare le tensioni. Questa mossa è stata considerata insufficiente e tardiva, specie a fronte degli abusi da parte della polizia nel corso degli ultimi mesi. È stata diffusa inoltre una registrazione audio di un intervento della Lam, durante un incontro a porte chiuse con investitori e magnati di industria, nella quale la stessa Chief Executive ammetteva di aver provato a dimettersi o a dare risposte più efficaci alle richieste dei manifestanti, ma di essere stata bloccata dal governo centrale cinese.
Vale la pena a questo punto spendere qualche parola sulla strategia del presidente Xi. Con gli occhi del mondo puntati sulla città e una guerra dei dazi in atto con gli Usa, la Cina ha deciso infatti che tutto sommato non esiste un reale bisogno di fermare le proteste: che i manifestanti continuino, sarà l’economia a punirli. Questo punto tocca una delle corde fondamentali della relazione tra la madre-patria e la città, in tempo coloniale modello di progresso sociale ed economico al punto da guardar dall’alto in basso la Cina rurale e sottosviluppata, poi snodo decisivo per gli interessi cinesi in occidente, ma oggi sorpassata su questo terreno da città come Singapore o Shanghai. Hong Kong è oramai una pedina sacrificabile nella partita a scacchi che il presidente Xi gioca contro il mondo.
Eppure, la protesta rimane un efficace esempio di logica “open source” applicata in ambito sociale. Sotto lo slogan “be water” i manifestanti hanno creato un movimento privo di leadership, capace di portare a termine iniziative rilevanti: dal crowdfunding di migliaia di euro per un’inserzione pubblicitaria sul Wall Street Journal nei giorni del G20 di Osaka, all’organizzazione delle manifestazioni con una meticolosa divisione dei compiti per bloccare i gas lacrimogeni o prendersi cura dei feriti; dagli scambi di informazioni via AirDrop per evitare i controlli sulle app di comunicazione come Whatsapp e Telegram, alle decisioni prese collettivamente su forum online. Più di tutto, affascina la creazione di un modello di partecipazione fluido, in grado di organizzare in tempo reale spostamenti da una parte all’altra della città, nel tentativo di essere più sfuggenti e difficili da fermare. Ma anche piccole cose che hanno creato un senso di partecipazione totale, come quei cori che ormai quotidianamente riecheggiano per le strade, dove al grido di «People of Hong Kong…» fa sempre eco la risposta «Stay strong!», o ancora la lunga catena umana ispirata al Baltic Chain, che nella serata del 18 agosto ha visto oltre duecentomila persone prendersi per mano in file chilometriche che arrivavano fin sopra ai colli attorno la città.
Nel tempo, però, la mancanza di risposte politiche alle richieste dei manifestanti, gli eccessi di violenza e l’assenza di ogni regolamentazione agli interventi della polizia, hanno modificato le dinamiche della protesta. Gli atti di disobbedienza civile, in principio sotto la forma di scioperi, hanno lasciato piede a sfoghi sempre più violenti, che hanno portato alla distruzione di stazioni della metropolitana, uffici e bancomat della Bank of China, o a lanci di bottiglie molotov contro la polizia. Nonostante queste strategie siano divisive anche all’interno del fronte dei manifestanti, con una larga fetta dei partecipanti che continuano a perpetrare una protesta non violenta, mancanza di leadership significa anche che nessuno ha realmente il potere di prendere in mano le redini delle frange più violente, oramai ingaggiate in una costante guerriglia contro la polizia che, protetta da totale impunità, ha a sua volta alzato spesso il livello dello scontro.
Arresti e spari
Sin dal principio delle proteste la polizia è stata messa sotto accusa per l’uso di armi da sfollamento puntante al volto dei manifestanti o utilizzate a distanza ravvicinata. I feriti sono stati numerosi e si sono registrati episodi come la perdita di un occhio da parte di una volontaria di primo soccorso nel mese di luglio.
Il weekend del 24 e 25 agosto la polizia ha utilizzato blindati con cannoni ad acqua colorata blu per rendere riconoscibili i manifestanti colpiti. Questi hanno risposto con mattoni e bottiglie molotov per la prima volta lanciate direttamente contro la polizia anziché contro edifici. Da quel punto in poi la situazione è degenerata, con manifestazioni autorizzate interrotte senza preavviso, blocchi delle linee metropolitane, arresti di massa.
Prima della manifestazione del 31 agosto, sei personaggi in vista dei movimenti pro-democrazia – tra cui Joshua Wong – sono stati arrestati e poi rilasciati su cauzione. Durante la giornata sono avvenuti scontri particolarmente duri, e il raid della polizia nella stazione metropolitana di Prince Edward, che ha finito per coinvolgere anche i passanti e viaggiatori. L’episodio è stato condannato da Amnesty International e l’uso di una banchina come roccaforte dove condurre manifestanti arrestati è divenuta immagine decisiva alla diffusione di un certo senso di paranoia tra la cittadinanza.
A inasprire ulteriormente gli animi sono state alcune risposte pubbliche date in conferenze stampa dalla polizia rispetto all’uso di violenze da parte degli agenti. Il 20 agosto, successivamente alla diffusione di un video e alla conferenza stampa per denunciare il caso di due agenti che hanno preso a pugni un manifestante ferito in ospedale, durante uno spostamento in ascensore, i responsabili della polizia hanno dichiarato di “non essere a conoscenza che la zona fosse video-sorvegliata”. Esattamente un mese dopo, il 21 settembre, un altro video ha denunciato un gruppo di cinque agenti che pestavano a calci un manifestante rannicchiato per terra. “Non è detto che quello sia un manifestante”, la risposta della polizia. “A noi sembra un oggetto giallo non chiaramente identificabile”.
L’apice degli scontri si è raggiunto nel weekend tra il 28 e il 29 settembre, durante la marcia non autorizzata per celebrare l’anniversario dell’Umbrella Revolution, che ha visto cecchini della polizia posizionati sui tetti dei centri commerciali a sparare proiettili di gomma tra la folla, colpendo tra gli altri una giornalista indonesiana e facendole perdere un occhio. Martedì 1 ottobre, giorno di celebrazione nazionale per i settant’anni del governo comunista cinese, per la prima volta negozi e stazioni della metropolitana hanno chiuso i battenti in previsione della reazione violenta dei manifestanti all’incidente del giorno precedente. Migliaia di persone si sono riversate nelle strade coi volti coperti scontrandosi con la polizia in più parti della città e uno studente diciassettenne è stato sparato in petto a distanza ravvicinata da un poliziotto in tenuta antisommossa (tutto filmato da un video divenuto virale). Lo studente è miracolosamente sopravvissuto perché il proiettile è passato esattamente in mezzo tra polmone e cuore. L’episodio ha tuttavia spaccato ulteriormente l’opinione pubblica, divisa tra chi considerava il gesto come legittima difesa del poliziotto (il ragazzo brandiva un tubo in PVC) e chi evidenziava che erano state le forze armate a caricare il gruppo di manifestati.
Dopo gli scontri del 1 ottobre, sfruttando una legge risalente all’era coloniale, il governo ha approvato, con poteri speciali, una norma che mette al bando qualunque forma di maschera o pittura che impedisca il riconoscimento facciale. La norma, da molti considerata inutile perché difficile da attuare in questo contesto, ha suscitato reazioni di protesta diffuse che si sono protratte durante il weekend. Un altro episodio ha avuto come protagonista un agente in abiti civili, che ha caricato con la macchina un gruppo di manifestanti in Yuen Long, salvo poi essere trascinato fuori dal veicolo e sparare, durante la colluttazione, un colpo con la pistola di servizio colpendo la gamba di un ragazzo di quattordici anni. L’uomo è stato attaccato, si è dato alla fuga ma è stato raggiunto ugualmente da una bottiglia molotov che l’ha avvolto tra le fiamme per qualche secondo. Nella giornata di sabato 5 ottobre i servizi della metropolitana sono stati sospesi su tutte le linee, per la prima volta nella storia della città, nel tentativo di impedire ai manifestanti di radunarsi.
Proteste e flussi economici
Dopo Cathay Pacific, compagnia aerea direttamente interessata dalle proteste, la società per i trasporti metropolitani MTR è quella che più ha subito il colpo degli scontri, a causa del suo supporto alle forze dell’ordine. In una città sempre più polarizzata, MTR ha in più occasioni chiuso stazioni della metropolitana e collaborato con le forze di polizia. Queste scelte sono valse reazioni distruttive da parte dei manifestanti che nelle giornate di protesta hanno sfasciato, imbrattato e dato alle fiamme intere stazioni.
Altre società come il gruppo di ristoranti Maxim o Bank of China hanno subito simili attacchi per via del loro manifesto supporto al governo centrale. Seppure la furia distruttiva riesca ancora a mantenere una certa lucidità, andando a colpire target specifici, è vero che la città resta scossa, weekend dopo weekend, tra paura degli abitanti e attività commerciali che si fermano, con le ovvie conseguenze economiche che iniziano a diventare importanti. I consumi crollano e i flussi turistici provenienti dalla Cina sono ai minimi storici dagli anni della SARS; una crisi economica sembra ora quasi inevitabile.
Con la legge oramai ritirata e i manifestanti trasformatisi nei violenti soggetti che erano sempre stati accusati di essere, altre concessioni del governo – la caduta dei capi di accusa di riot e la scarcerazione dei manifestanti arrestati – sembrano impossibili. Nessuno può dire come andrà a finire, seppure in molti già immaginano la proclamazione di una sorta di legge marziale per riportare ordine. Certo è che se la strategia del presidente Xi è stata quella di lasciare la città a macerare nel proprio odio, autodistruggendosi, sembra in questo momento vincente. (gianluca crudele)