
da: El Salto
Giovedì 3 ottobre la Confederación de Nacionalidades Indígenas dell’Ecuador (Conaie) ha convocato, con altri settori del sindacalismo tradizionale, uno sciopero nazionale in opposizione alle ultime misure economiche del governo. L’annuncio dello sciopero ha dato il via a una serie di mobilitazioni e assemblee permanenti in territori ad alta presenza indigena, in vista di un grande raduno a Quito per ottenere la deroga del decreto 883, che contiene al suo interno l’aumento del prezzo dei combustibili in tutto il paese.
Gli squilibri economici dell’Ecuador non sono una novità. Già nel 2016 – ultima fase del decennale mandato di Rafael Correa – circolavano documenti che raccomandavano un forte risanamento dei conti per preservare la stabilità finanziaria del paese, ma il governo Correa decise di non renderli pubblici.
L’antecedente della misura odierna è rappresentato dagli accordi stabiliti dal governo ecuadoregno con il Fondo monetario internazionale, con il quale l’organismo finanziario esigeva tagli all’erario in cambio della concessione di un credito di poco più di 10 mila milioni di dollari nei tre anni seguenti. Di fronte a queste richieste, il governo presieduto da Lenin Moreno aveva due opzioni: quella di aumentare l’Iva di tre punti percentuali o quella che alla fine ha approvato, e che sembrava la meno impopolare. La scarsa efficienza di un sistema di incentivi che beneficiava soprattutto grandi imprese con un ampio parco macchine e alto consumo di combustibile, oltre a settori dell’élite economica che dispongono di più di un veicolo per famiglia, sembrava quella che avrebbe generato meno rifiuto sociale. Perciò Moreno ha decretato la fine degli incentivi, provocando un notevole incremento del prezzo della benzina “extra”, la più usata nel paese (da 1,45 a 2,41 dollari al gallone, circa 4,5 litri), mentre la benzina Eco País (extra con etanolo) passava da 1,45 a 2.53 e la Super de 2,3 a 3,07 dollari.
Immediatamente i camionisti hanno bloccato le autostrade e i tassisti le strade urbane, anche se il giorno seguente lo sciopero è stato revocato per negoziare con gli scioperanti un aumento delle tariffe. In realtà, il settore dei trasporti ha sempre saputo adeguarsi alle misure dei diversi governi che si sono succeduti nel paese. All’epoca di Correa sono arrivati ad appoggiare il partito di governo con una propria formazione politica occupando seggi in parlamento. In ogni caso, per esperienza storica, il popolo ecuadoregno sa che l’incremento dei prezzi della benzina colpisce i portafogli di tutti i cittadini, che possiedano o meno un veicolo a motore. I prezzi dei prodotti di prima necessità e gli indicatori dell’inflazione sono colpiti in maniera indiretta da questo tipo di misure.
Il malcontento generalizzato non ha però fatto cambiare posizione a Lenín Moreno, che ha dichiarato che la liberalizzazione del prezzo della benzina è una delle politiche necessarie per risanare le finanze pubbliche e sulla quale non si farà “marcia indietro”. Le organizzazioni sociali hanno definito le misure governative un paquetazo neoliberista, che avvantaggia solo le aziende, precarizza il lavoro e restringe sempre di più il pubblico impiego.
Nello scorso fine settimana si sono moltiplicate mobilitazioni e assemblee indigene in gran parte del paese, nonostante il governo abbia dichiarato lo stato d’eccezione limitando o sospendendo il diritto all’inviolabilità del domicilio, la libertà di movimento e quella di riunione. Nelle assemblee, sempre più partecipate, la risoluzione è stata unanime: una mobilitazione a oltranza in tutto il paese per rifiutare le misure economiche e difendere le terre, i fiumi, le acque, la giustizia indigena, l’educazione interculturale, la salute, i trasporti e le radio comunitarie.
Trecento blocchi stradali
I blocchi stradali si sono moltiplicati sulla rete stradale nazionale, arrivando a trecento contemporaneamente lo scorso fine settimana. Il governo, nel frattempo, ha tentato di combinare due diverse strategie: da un lato intensificando la repressione, con l’eufemismo dell’uso progressivo della forza; dall’altro, tentando un dialogo con i manifestanti, attraverso proposte di compensazione ai settori mobilitati (crediti produttivi a basso interesse, sostegno per l’acquisto di macchine agricole, riconoscimento delle autorità locali, ecc.). La strategia non ha funzionato: la dirigenza nazionale della Conaie ha dichiarato che il dialogo con il regime è chiuso. “Non ci sarà nessun avvicinamento a nessun rappresentante dello stato, finché non sarà revocato il decreto che aumenta il prezzo del carburante”, hanno sostenuto all’unisono i portavoce. In vari territori indigeni sono state trattenute unità di militari e polizia, rilasciate solo dopo la liberazione di civili arrestati in quelle stesse comunità. Seguendo il principio di autodeterminazione dei territori indigeni, la Conaie ha dichiarato anch’essa uno stato d’eccezione, proibendo l’ingresso di gruppi armati degli apparati di sicurezza dello stato.
La settimana è iniziata con più calma. I portavoce del governo se ne compiacevano sui media. Il numero di arresti tra i civili aveva già raggiunto trecentoventi in quel momento; dei trecento blocchi stradali ne erano rimasti cinquanta, e anche il numero delle mobilitazioni era apparentemente diminuito. “Il paese sta lentamente tornando alla normalità”, ha affermato la ministra dell’interno María Paula Romo. Ma la versione indigena era completamente diversa. Secondo Jaime Vargas, presidente della Conaie, “la repressione ha permesso al movimento di rinforzarsi e coordinarsi con le sue basi e con altre organizzazioni sociali di ogni provincia, per muovere verso la capitale”.
Appena un paio d’ore dopo iniziavano i messaggi di allerta nella capitale. La polizia nazionale e i servizi segreti notavano un forte movimento nelle strade, dalle province indigene della Sierra Central verso Quito. La reazione non poteva essere peggiore: il ministro della difesa, un generale dell’esercito che risponde al nome di Oswaldo Jarrín, ha minacciato direttamente le persone mobilitate: “Non provocate la forza pubblica, non la sfidate, o sapremo come rispondere”. Queste dichiarazioni hanno scaldato ancora di più gli animi dei manifestanti.
Nel corso di lunedì 7 ottobre, diversi gruppi di indigeni hanno raggiunto la capitale, e sorprendentemente anche Guayaquil, la seconda città del paese. In diversi quartieri popolari della periferia di Quito gli indigeni sono stati accolti con atti di solidarietà da parte della popolazione, nonostante la forte campagna di disprezzo e razzismo scatenata da influenti personaggi conservatori sulle reti sociali. Con l’accesso alle città presidiato dalla forza pubblica – militari e corpi speciali della polizia nazionale – gli scontri sono stati numerosi. Quanti più manifestanti venivano arrestati, tanta più violenza, mentre continuavano i poco credibili appelli al dialogo, e gli incendi di alcuni furgoni della polizia durante gli scontri. […] Sia a Quito che a Guayaquil le mobilitazioni popolari sono state accompagnate da atti di vandalismo di gruppi organizzati che approfittavano delle proteste per fini delittuosi. Allo stesso modo, alcuni seguaci di Correa si sono infiltrati nelle manifestazioni per assaltare edifici pubblici – l’Assemblea Nazionale e la Corte dei Conti –, atti condannati dalla Conaie e dalle altre organizzazioni che hanno convocato la manifestazione. In altre province, i manifestanti hanno occupato la sede del governo o il Consiglio giudiziario nella provincia di Bolivar. Le mobilitazioni sono state permanenti nelle province amazzoniche e nella Sierra Central, tutte aree con una fortissima presenza indigena.
Alle 21 di lunedì è arrivata l’attesa conferenza stampa televisiva. Il presidente Lenin Moreno, accompagnato a destra dal vicepresidente e a sinistra dalla ministra della difesa, insieme ai capi dei diversi corpi militari, ha affermato – con un certo nervosismo – che il popolo dell’Ecuador stava assistendo a un tentativo di “colpo di stato” sostenuto da un complotto internazionale. “Quel satrapo di Maduro, insieme a Correa, ha messo in moto un piano di destabilizzazione”, ha affermato Moreno, insistendo sul fatto che sulle misure già prese “non c’è marcia indietro possibile” e che “saccheggi, vandalismo e violenza mostrano un’intenzionalità politica organizzata per destabilizzare il governo e rompere l’ordine costituito, rompere l’ordine democratico”.
Per la sorpresa di tutti gli ecuadoregni, la conferenza stampa è stata mandata in onda dalla città di Guayaquil; questo implica che il governo ha abbandonato il palazzo di Carondelet nella capitale per installarsi in un’altra città – come aveva fatto Charles de Gaulle nel maggio del 1968.
La strategia politica e comunicativa del governo di Lenin Moreno non poteva essere più errata. Questa nuova scenografia della forza, il presidente circondato dai militari, mostrava in realtà tutta la sua debolezza: un governo privo di base sociale, con una credibilità inferiore al venti per cento; un confuso appello al dialogo in mezzo al rifiuto assoluto di ritirare il decreto 883; infine, l’allarme per una presunta trama internazionale di destabilizzazione, così poco credibile come lo erano state quelle precedenti di Rafael Correa di fronte a qualunque ribellione indigena o sciopero operaio.
La notte a Quito è stata lunga. Il vandalismo ha preso il sopravvento in alcune zone della città, mentre manifestanti indigeni e studenti universitari portavano cartelli e manifesti con su scritto “Né Correa né Moreno”, cercando di distanziarsi dal tentativo di capitalizzazione politica delle lotte da parte dei sostenitori di Correa.
Le persone mobilitate si sono organizzate per passare la notte accampate nei parchi pubblici, negli stadi universitari e nei locali delle organizzazioni sociali. Alcuni durante la notte hanno portato cibo e coperte agli ultimi arrivati, mentre gli studenti di infermeria hanno curato i feriti e i giornalisti alternativi hanno cercato di coprire i fatti in modo coerente rispetto alle richieste delle mobilitazioni. Allo stesso tempo, altri settori di cittadini della capitale hanno espresso la loro paura convocando una manifestazione di rifiuto alla protesta, teoricamente in difesa di Quito. Messaggi xenofobi hanno circolato per le reti sociali e i leader conservatori hanno chiamato alla mobilitazione contro il correísmo, cercando a loro volta di smarcarsi opportunisticamente da Moreno, ma chiaramente contrari a quella che considerano un’invasione della loro città da parte di “indigeni ignoranti”.
Così è iniziato il giorno di oggi, martedì 8 ottobre. Alla chiusura di questa cronaca, le persone iniziano a raggrupparsi in zone vicine al centro della città di Quito, mentre continuano ad arrivare nuovi gruppi nella capitale. Oggi le mobilitazioni saranno sicuramente calde e domani ci sarà uno sciopero generale.
Sette presidenti e tre costituzioni
Lo scorso 10 agosto l’Ecuador ha compiuto quaranta anni di democrazia, dopo una dittatura militare che è durata dal 1972 al 1979, con diverse fasi politiche. In questo periodo ci sono state undici elezioni, tre costituzioni – nel 1978, 1998 e 2008 – e un decennio di destabilizzazione politica, iniziato con la caduta di Abdalá Bucaram e concluso con l’arrivo di Rafael Correa alla poltrona presidenziale. Durante questo decennio, sette personaggi, ognuno politicamente peggiore del precedente, hanno coperto il loro petto con la fascia presidenziale. Il decennio di Correa ha stabilizzato politicamente il paese, ma si è concluso con una notevole delusione per la maggior parte del popolo dell’Ecuador, visto il predominio del potere esecutivo su tutti gli altri poteri dello stato.
L’ultima fase di declino economico del paese è iniziata nel 2014, con la caduta dei prezzi del petrolio. Durante l’ultimo periodo del governo di Correa il paese ha iniziato a consegnarsi al Fondo monetario internazionale: il bilancio generale dello stato è passato da 44,3 milioni di dollari nel 2014 a 37,6 milioni nel 2016, il debito pubblico dal 2,8% del PIL nel 2012 all’8,1% nel 2016 e al 9% nel 2017, e l’urgenza di ottenere finanziamenti internazionali ha portato il governo Correa a negoziare parte della riserva nazionale di oro con la Goldman Sachs. È stato firmato un trattato di libero commercio con l’Unione Europea e si è arrivati al punto di ipotecare alla Cina e alla Tailandia il petrolio ancora non estratto dal sottosuolo del paese. (decio machado / traduzione di stefano portelli e luca rossomando)