
È in libreria da qualche mese il libro A che punto è la città? (153 pp., 12 euro, Edizioni dell’asino, 2018), un libro collettivo a cura del gruppo bolognese della rivista Gli asini. Qui la presentazione in quarta di copertina. A seguire vi proponiamo un estratto da uno dei contributi del volume: “Bologna è da sempre associata al ‘buongoverno’, una parola che evoca concrete esperienze di governo locale ma anche rappresentazioni mitizzate. Oggi quella parola ha perso qualsiasi significato ed è stata sostituita da formule puramente retoriche: parole ricorrenti nel discorso pubblico, come partecipazione e rigenerazione urbana, oppure l’evocazione di modelli di sviluppo apparentemente promettenti sul piano economico e occupazionale (la città del cibo, la città del turismo), hanno un significato opposto rispetto a quello evocato e nascondono la subalternità e l’impotenza dei poteri pubblici. Queste retoriche e le pratiche che le accompagnano rendono difficile l’interpretazione della rapida trasformazione della città. Ricostruire un pensiero critico e un’intelligenza collettiva è quindi un compito urgente”.
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“La Gentrificazione è quando in un paese si vive bene, i costi sono limitati e a un certo punto cambia tutto perché arrivano dei fighetti ricchi che fanno tipo il safari come in Africa solo che si fanno grandi perché dicono di vivere la vita vera della gente di strada ma non sanno niente e aumentano il prezzo di tutto per mangiare le stesse cose ma a prezzi più alti perché sono belle da fotografare, i negozi diventano tutti curati tutti messi tipo bonjour e noi non abbiamo più un posto dove poter fare le cose a poco prezzo. Se poi ti va male ti mandano anche via dal tuo quartiere perché la tua famiglia grida troppo o le case fanno schifo e tu non hai i soldi per ripararla come piace a loro”. (dal blog I pilastrini)
Nel Medioevo il cuore di Bologna era il Quadrilatero, un pugno di strade nel centro storico in cui si concentravano tutte le attività commerciali e artigianali della città. Il Quadrilatero è oggi quel quadrato delimitato da piazza Maggiore, via Rizzoli, via Castiglione, via Farini: il “ventre” di Bologna dove ogni turista transita alla ricerca di una autenticità bolognese fatta di cibo-souvenir e aperitivi all’aperto che ormai occupano tutto il suolo pubblico transitabile.
La cifra della città è la sua espansione a cerchi concentrici: da tempo ormai il modello del Quadrilatero si è esteso all’intera pianta a poligono irregolare – delimitata dalle porte della città – che incorniciano il centro di Bologna. Nel poligono di tiro al turista, oltre ai consueti ristoranti, bar, bistrot – che anche qui occupano suolo pubblico, piazze, piste ciclabili, portici con tavoli, sedie, dehors, stufe a fungo – gli abitanti sono dediti all’imprenditoria smart – cioè innovativa, creativa, tecnologica e sostenibile secondo le definizioni – dell’affitto selvaggio. Si affittano stanze di casa, seconde case, si passa il fine settimana dalla mamma o dagli amici e si affitta l’appartamento, a volte si affitta la propria casa di proprietà e si va in affitto fuori dal centro pur di entrare nell’affare del turismo airbnb, speranzosi di ricavare un salario aggiuntivo al lavoro a partita IVA – precario, ma “creativo” – che permetta di sostenere l’incremento dei costi degli affitti, dei servizi di trasporto, dei beni di consumo del tempo libero, generati dalla gentrification turistica che così si contribuisce ad alimentare. Il classico cane che si morde la coda.
Nei quartieri e nelle aree periferiche invece sono spuntate a macchia di leopardo roboanti opere di valorizzazione e nuove edificazioni. Ad esempio l’incompiuta Trilogia del Navile o, nella zona Santa Viola, il progetto di ristrutturazione dello stadio Dall’Ara con le sue compensazioni commerciali ai privati nei Prati di Caprara, laddove i cittadini e i comitati invece chiedono che i ventisette ettari di area boschiva non vengano cementificati. La speculazione edilizia a Bologna non è una questione nuova, era iniziata negli affluenti anni Ottanta e non si è arrestata nemmeno con la crisi del mercato immobiliare. Si è nutrita dagli anni Novanta di urbanistica contrattata, cioè spinta dall’iniziativa privata, contro l’urbanistica della pianificazione, cioè programmata dalle istituzioni pubbliche e strettamente regolamentata dai piani urbanistici. È passata attraverso attività produttive dismesse lasciate all’abbandono fino alla concessione di cambi di destinazione d’uso in funzione “antidegrado” come nelle ex-Officine Minganti nel quartiere Navile. Si è presentata attraverso una retorica martellante su riqualificazioni e rigenerazione urbana come strumenti per fermare il consumo di suolo ma utilizzati come cavalli di Troia per giustificare ampliamenti edilizi. Ha colto l’occasione della svendita delle aree ex militari a consorzi privati, come nel caso della ex-caserma Masini nel quartiere Santo Stefano.
Mentre il centro della città diventa quindi una scenografia a cielo aperto e la cultura è il volano economico dell’industria del turismo grazie alla sua valorizzazione nella costruzione della brand image di Bologna, nei quartieri e nelle periferie proliferano i supermercati, i centri commerciali, i progetti “partecipati” e le grandi opere di Bologna city of food. Il corollario di questa espansione della città sono gli sgomberi di case popolari ed edifici abbandonati occupati da una popolazione a cittadinanza debole, travolta dall’onda della gentrification e dagli effetti di una economia dei servizi al consumatore caratterizzata da precarietà, bassi salari, scarse tutele e nessuna identità.
Studenti
«Sono venuto a Bologna dalle Marche per studiare all’Università. Ma si sa, gli affitti sono alti e le tasse universitarie sono anche cresciute, quindi ad un certo punto non potevo solo studiare e mi sono messo a cercare lavoro. Ho trovato lavoro in un discount qui nel quartiere San Donato e sono stato molto fortunato. La zona dove lavoro va anche bene, anche se ci sono sempre gli zingari fuori dal negozio, è un quartiere povero e ci viene gente povera e io non lo conosco, ci vado solo per lavorare. Al lavoro, siccome siamo meno dipendenti di quelli di cui ci sarebbe bisogno, bisogna essere svegli. Io sono sveglio e infatti spesso faccio la cassa nelle ore più difficili perché sono molto veloce. Il lavoro è a turni da otto ore, poi con gli straordinari magari riesci a fare qualche soldo di più ma già non proprio tutte le ore sono pagate. Non ci sono praticamente pause. Guadagno ottocento euro al mese circa, ci pago l’affitto e ci vivo e poi cerco di studiare ma lavorando con l’Università vado lento».
Migranti
Incontro Dumitra dove oggi abita, nella zona del Pilastro. A Bologna il Pilastro è una parte del quartiere San Donato. Sin dalla sua fondazione negli anni Sessanta, l’alta densità di edilizia residenziale pubblica destinata a famiglie di grandi dimensioni e un certo isolamento dal resto della città, l’ha reso il luogo deputato prima all’accoglienza dei flussi migratori dei profughi dalle guerre nell’ex- Jugoslavia e poi del Kosovo. Poi all’inserimento nelle abitazioni pubbliche di famiglie di diversa origine migratoria ma tutte accomunate da un forte rischio di vulnerabilità sociale ed economica. Intorno a lei ci sono due bambini. Io ricordo che nell’occupazione abitativa in cui l’ho conosciuta, lo Scalo migranti di via Casarini, era incinta del più grande.
Il tempo sembra essere passato molto più per lei che per me: siamo due donne della stessa età ma sembriamo di due generazioni differenti. Dumitra mi racconta che la sua famiglia è stata inserita in un programma per l’affitto agevolato al Pilastro. All’inizio le cose andavano bene perché suo marito lavorava e per il cinquanta per cento dell’affitto erano aiutati dal Comune. Successivamente il sostegno all’affitto doveva decrescere e loro dovevano essere in grado di sostenere una casa ai prezzi di mercato, sebbene un mercato dai costi contenuti come quelli delle case al Pilastro. Mentre l’affitto cresceva il marito di Dumitra, seguito alla crisi economica, ha perso il suo impiego. Dumitra nel frattempo aiutava la famiglia con piccoli lavori saltuari nelle pulizie. Il marito di Dumitra non riuscendo a trovare un’altra occupazione è lentamente caduto in una forte depressione che l’ha portato a non uscire più di casa e a ingrassare fino a diventare una persona gravemente obesa con forti problemi di salute e quasi impossibilitato a muoversi. Dumitra è disperata perché con due figli non riesce a garantire la sopravvivenza della sua famiglia e ha paura di essere sfrattata dalla sua casa. Nonostante questo, non vuole rivolgersi ai servizi sociali per un sostegno: teme che la ritengano una madre inadeguata. Ha paura di un allontanamento dei figli piccoli, dopo l’esperienza per lei insostenibile dell’ipercontrollo del servizio sociale durante il suo periodo di residenza in Villa Salus – la soluzione abitativa transitoria in cui era stata collocata con la sua famiglia dopo lo sgombero di via Casarini.
Dopo un gioco dell’oca durato sedici anni e fatto di occupazioni, strutture residenziali d’emergenza, programmi di sostegno all’affitto, passati attraverso la condizione di migranti irregolari, lavoratori in nero, migranti extracomunitari con permesso di soggiorno e migranti comunitari, Dumitra e la sua famiglia non hanno ancora trovato stabilità.
La periferia e i suoi abitanti
Ci sono le scuole di frontiera, i maestri di frontiera, il teatro di frontiera, l’intervento sociale di frontiera e sono in quei settori dei quartieri fuori dal centro della città ancora popolari, detti periferie, per esempio il Pilastro. Un progetto culturale, sociale, urbanistico, educativo o un intervento politico in campagna elettorale in queste periferie assume un plus di pathos etico, rende più eroici, più salvifici, più buoni, più impegnati. All’aperitivo in centro si torna poi cosparsi di un’aura di eccezionalità, di intellettualità impegnata, come il bianco e nero dei documentari a sfondo sociale. Il fatto stesso di essere alla frontiera è garanzia del valore artistico o culturale delle cose si fa, la figura del disagio sociale e dei suoi attori è un elemento fondamentale per la valorizzazione economica del progetto culturale o sociale. La periferia, quindi, come una larga prateria da animare, sviluppare, in cui portare empowerment. Territorio da risocializzare secondo il gusto e lo sguardo delle élite culturali che vivono in centro.
Il Pilastro, da rione popolare progettato negli anni Sessanta per offrire alloggi ai proletari immigrati dal sud per lavorare nelle fabbriche di Bologna, per il suo isolamento spaziale, per l’alta densità di edilizia popolare concentrata nel territorio, per la collocazione nelle case popolari di famiglie numerose provenienti da diverse ondate migratorie, negli anni Ottanta-Novanta ha rischiato di diventare il ghetto della città. È stato salvato da questo destino dall’attivismo degli abitanti riuniti in uno storico comitato inquilini fino dagli anni Ottanta, da servizi sociali ed educativi che hanno agito in modo capillare e dotati di risorse e strategie di intervento fino agli anni Novanta, e da interventi urbanistici che hanno mirato a sviluppare gli spazi verdi nel quartiere e a collegarlo al resto della città. Nonostante ciò il Pilastro è rimasto nell’immaginario comune come un rione particolarmente problematico in uno dei quartieri, il San Donato, dove più alto è il tasso di residenti migranti e più basso il reddito pro-capite.
Quando fu progettato alla fine degli anni Sessanta, al Pilastro finiva la città. Questa situazione è rimasta invariata fino a quando negli anni Duemila fra le campagne e gli svincoli stradali alle spalle del Pilastro non si abbatté la sventura di un progetto di riqualificazione/valorizzazione dell’area che portò alla costruzione del parco commerciale Meraville (50.000 mq), al trasferimento della facoltà di agraria dell’Università di Bologna e all’insediamento del CAAB, un grande mercato generale ortofrutticolo di proprietà pubblica che doveva diventare uno dei più grandi snodi del mercato alimentare del fresco nel centro-nord per rifornire la grande e piccola distribuzione organizzata. 80.000 mq di cementificazione per costruire un mercato nato sovradimensionato, distrutto in quindici anni dal sistema chiuso di filiera e di approvvigionamento della Grande Distribuzione Organizzata (GDO).
Dalla crisi del CAAB è nata l’idea di spostare e ridurre il mercato ortofrutticolo e di utilizzare la stessa area per impiantarvi F.I.CO (Fabbrica Italiana Contadina). Questo progetto ha portato sull’enorme area dismessa quella che è stata definita la “Disneyland del cibo” dai suoi stessi ideatori: in primis Andrea Segré preside prima e poi direttore di dipartimento della Facoltà di agraria e presidente del CAAB, e poi Oscar Farinetti, presidente di Eataly, società a sua volta controllata al quaranta per cento da Farinetti e al quaranta per cento da Coop Alleanza 3.0 e Coop Liguria. Eataly è in sostanza una società in parte controllata dallo stesso sistema della grande distribuzione delle Coop che ha fatto fallire il CAAB. F.I.CO prevede la realizzazione di trenta ristoranti; quaranta laboratori; cinquanta punti vendita concentrati su un’unica area e che dovrebbero attirare dieci milioni di visitatori: una sorta di Expo permanente sul cibo.
Su questo progetto molto roboante e molto rischioso l’entusiasmo delle istituzioni e di alcuni investitori bolognesi è stato sorprendente: il Comune ha donato a F.I.CO cinquantacinque milioni di patrimonio immobiliare pubblico senza alcun bando e senza alcuna contropartita – l’area del CAAB, di cui una parte è stata già svenduta a Carisbo con annesso cambio di destinazione d’uso dei terreni per costruirvi forse un ulteriore centro commerciale o case. Alcuni privati – banche, fondazioni e investitori privati – hanno fornito a F.I.CO il capitale residuo per un totale di cento milioni di investimenti, tutti gestiti dal fondo immobiliare Parco Agroalimentare, creato per l’occasione e sul quale il Comune non ha nessuna quota di partecipazione. Le amministrazioni pubbliche si sono impegnate inoltre anche alla realizzazione degli oneri di urbanizzazione, in particolare i trasporti, che dovranno collegare il F.I.CO con la stazione e l’aeroporto. Naturalmente l’appalto per i lavori di trasformazione nell’area del CAAB lo ha vinto il Consorzio Cooperative Costruzioni di Bologna.
Tutto questo sistema commerciale e di affari nato e nascente alle spalle del Pilastro non ha di fatto prodotto effetti sugli abitanti che continuano a vivere le loro vite: i problemi di convivenza fra gruppi di cittadini di origini e storie migratorie diverse nei grandi caseggiati popolari; il vandalismo degli adolescenti negli spazi pubblici del rione; i problemi di microcriminalità; la scarsa qualità energetica degli edifici Acer che comportano grossi sprechi e bollette impossibili da pagare per gli inquilini; l’alto tasso di disoccupazione all’interno delle famiglie e la forte dipendenza dal sistema dei servizi di assistenza sociale; l’abbandono delle scuole del rione da parte delle famiglie anche straniere che non vogliono portare i figli nelle scuole considerate ghetto del territorio; gli ostacoli nella relazione fra le istituzioni scolastiche e le famiglie; le difficoltà di alcune famiglie rom che vivono parcheggiate in roulotte nel quartiere; la riproduzione di storie di forte disagio sociale attraverso le generazioni all’interno degli stessi nuclei familiari; le gravidanze precoci delle ragazze; la disgregazione dei nuclei familiari aggravata da migrazioni e crisi economica in cui donne sole si ritrovano ad essere il perno all’interno di famiglie con numerosi figli e nipoti.
Il cruccio dell’amministrazione è però quello di riconnettere l’area residenziale del Pilastro alle trasformazioni che stanno avvenendo alle sue spalle; favorire il mix sociale in una zona ad alta densità di residenti di origine migrante; riqualificare gli edifici di edilizia residenziale pubblica; favorire lo sviluppo locale di un territorio periferico che si appresta a diventare una nuova centralità: tutte parole che suonano minacciose viste le realtà che travestono.
Se poi ti va male ti mandano anche via dal tuo quartiere perché la tua famiglia grida troppo o le case fanno schifo e tu non hai i soldi per ripararla come piace a loro.
L’unica salvezza è quella di rimanere ignoti alla città. (fulvia antonelli/savino reggente)