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17 Settembre 2023

Il bibliotecario va in montagna #2

Luca Valenza
(collage di stefania spinelli)

 

La strada principale che dal paese porta alle borgate montane ha il nome di Viale partigiani georgiani. Durante la guerra di liberazione alcuni soldati sovietici combatterono sui monti della Valle di Susa. Imprigionati dalle forze dell’asse durante l’avanzata di Russia furono impiegati forzatamente in Italia come manovalanza nella logistica e nelle ferrovie. Molti disertarono unendosi alle brigate partigiane in montagna, erano puliti, armati, temibili ed implacabili, il nemico aveva paura di loro, alcuni morirono e pochi ancora li ricordano.  Ada Prospero Gobetti Marchesini dice che erano, forse, cechi: “I cechi se ne son venuti su senza colpo ferire, portandosi l’equipaggiamento completo, divise, armi, coperte, tende, pentolini. Qui han montato le loro tende e tengon tutto in ordine perfetto: pentolini lucidissimi, divise ben pulite, armi perfettamente forbite. Formano un gruppo a sé con un proprio capo e sono organizzati e disciplinatissimi. («Si lavano i piedi tutti i giorni», m’ha sussurrato un nostro partigiano valsusino con accento non ho ben capito se di compianto o di ammirazione). Vedemmo anche le postazioni delle mitragliatrici, molto ben occultate”.

Un cippo sulla via di casa riporta la scritta: “Via partigiani georgiani. Valle di Susa. 1944 – 1945”. Iscrizione dedicatoria: “in valle di Susa / per la libertà d’Italia e d’Europa / figli della Georgia sovietica / con indomito coraggio / hanno combattuto fianco a fianco /con i fratelli italiani / nelle formazioni partigiane. /1944 1945 / gloria eterna agli eroi / caduti per la libertà / contro l’oppressione / nazifascista”. E la targa del quarantennale: ” a 40 anni dalla vittoria / sul nazi-fascismo (1945-1985) / ai partigiani e amici sovietici / i partigiani italiani”.

Il cippo salendo si perde tra le curve e i rami nodosi, di notte però, illuminato dai fari e dal silenzio, attira l’attenzione di animali e passanti. Mi capita avvicinandomi di pensare a quella pietra parlante, grigia, fredda, ventosa, dimenticata, e alle volte riesco ancora a sentire, con la voce altalenante e vibrata di Carmelo Bene, Vladimir Majakovskij urlare come un tuono: “Coi raggi degli occhi rosicchierei le notti / Se fossi appannato come il sole! / Che bisogno ho io di abbeverare col mio splendore / il grembo dimagrato della terra? / Passerò, trascinando il mio enorme amore / In quale notte delirante, malaticcia? / Da quali Golia fui concepito, / cosí grande / e cosí inutile?”.

A me sembra che in montagna tutto gridi e niente taccia, stridono le cicale, si muovono le vacche, scricchiolano i rami, abbaiano i caprioli, ridono i picchi e rimbombano i silenzi. Nei boschi questo fragore si moltiplica, percorrendo strade bianche, mulattiere, sentieri scoscesi, alpi solitarie, puoi incontrare tracce di vita dimenticata che urlano incessantemente.

Il bosco nel giro di qualche decennio ha gradualmente ricoperto le tracce dell’uomo che ha abbandonato i luoghi altri per le città, qui una scritta (“Scarperia moderna”), qui un forno ricoperto dall’edera, un materasso di lana fiorito, ceste intrecciate, una pagella ingiallita, un mobile sconquassato e strumenti da lavoro bruniti fanno capolino tra un abete e un groviglio di rovi. Chi è andato si è portato via memoria e ricordi, disperdendo usanze, consuetudini e linguaggi. Si sono perse anche le strade, non quelle sulle mappe o segnate di bianco e di rosso, ma quelle antiche, strade d’uso e di usi, che passavano accanto le vigne, fra i campi e gli alpeggi, strade per lavorare, per arrivare veloce e strade per fuggire veloce.

I miei vicini di casa coltivano erbe officinali e non hanno più una strada. Vivono in una borgata nel cuore della montagna, vendono tisane aromatiche e piccole cose, ma a casa loro puoi arrivare soltanto a piedi, dal basso seguendo vecchi sentieri non sempre agevoli, o dall’alto passando nel bosco tra frassini, castagni e strettoie scoscese. Ci sarebbero altri modi per giungervi, ma da un lato i vicini non lasciano più transitare sul proprio terreno, e dall’altro una nuova pista tra incolti e rovi è stata dichiarata fuorilegge, le ingiustizie rimangono tali anche nelle terre alte. C’è una sorta di fatalismo in tutto questo, all’ingresso del camposanto di una borgata più a monte una scritta nera in lettere grandi e strette recita: “Oggi a me domani a te”. (luca valenza)

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