
Ottobre 1980. Il presidente della squadra di calcio dell’Avellino Antonio Sibilia si reca presso il tribunale napoletano di Castel Capuano e durante una pausa di uno dei tanti processi a carico di don Raffaele Cutolo, consegna al boss della Nuova Camorra Organizzata una medaglia commemorativa dell’U.s. Avellino. Il presidente si fa accompagnare dal suo gioiellino esotico – il brasiliano Juary –, non si sa quanto consapevole di quel bizzarro contesto.
Giugno 1981. Una folla arrabbiata di tifosi dell’Udinese protesta contro gli intralci federali che stanno bloccando l’ingaggio di Zico. Tra la folla, un cartello recita: “O Zico o Austria!” La stampa lo scambia per una nota di colore o una goliardata; nessuno coglie la suggestione secessionista ante-litteram, che anticipa i venti che soffieranno nel nord-est per tutto il decennio successivo.
Dicembre 1958. La nazionale italiana perde la partita decisiva contro l’Irlanda e per la prima volta resta fuori dai mondiali. La stampa e la politica nazionale si scatenano contro l’eccessiva presenza di stranieri nel nostro campionato, che toglierebbero il posto ai giovani talenti italiani, ostacolando il lavoro dei selezionatori. Sessanta anni dopo – nel 2018 e poi ancora nel 2021 – il dibattito si riprodurrà praticamente identico.
Questi sono solo alcuni degli episodi riportati nel bel libro di Alberto Molinari e Gioacchino Toni (I migranti del pallone, Le Monnier, 2023), che gli autori scelgono per illustrare la loro tesi: attraverso il complicato rapporto tra il calcio nostrano e l’apporto straniero, si possono cogliere in controluce molti aspetti, aporie, fobie, tendenze e stereotipi, che riguardano più in generale la storia patria contemporanea.
È vero che la metafora del calcio specchio del paese è piuttosto abusata, diventando spesso stereotipo anch’essa; ma in questo libro la focalizzazione è più precisa, riguardando il nervo scoperto del “forestiero”, nonché il cortocircuito tra l’eterno iper-provincialismo dell’Italietta e le sue velleità sovranazionali, che tra la Belle Epoque e la seconda guerra mondiale, riemergono ora in modalità farsesche, ora in forme tragiche. Un nodo che non è tanto calcistico, quindi, quanto storico, politico e antropologico: l’eterna tensione tra visione autarchica e ricerca della legittimazione tra i ranghi delle nazioni “che contano”. E il calcio, disciplina dalla genesi totalmente “straniera”, si presta bene a evidenziare questa tensione.
Il gioco nasce come prodotto di importazione – più svizzero che inglese. A portarlo dalle nostre parti sono borghesi dinamici – commercianti, imprenditori, finanzieri – che verso la fine del diciannovesimo secolo scelgono la piccola malmessa Italia post-unitaria come sede di affari e investimenti; e investono anche in cultura e tempo libero, esportando le discipline atletiche, nel cui ambito il calcio delle origini è collocato. In un ventennio, il football dei circoli del notabilato e delle società “ginniche” dai nomi anglosassoni, diventa fenomeno nazionale e popolare.
Gli autori raccontano il travaglio, a cavallo dei due secoli, che accompagna la “nazionalizzazione” del football in Italia. È un fenomeno che va letto dentro lo sforzo più generale di costruzione di un “ethos” nazionale in un paese di tardiva unificazione, ancora profondamente spaccato in “più Italie”, diverse e reciprocamente diffidenti. Sembra un paradosso, ma la prima globalizzazione – quella fin de siecle – immette nel paese influenze, pulsioni, mode e idee che verranno riletti e piegati nello sforzo di “nazionalizzazione” delle masse italiane.
“L’italianizzazione del football operata dal movimento ginnastico riguardava anche il linguaggio utilizzato nella manualistica sulle regole e sui metodi del calcio. Nel regolamento pubblicato da Francesco Gabrielli nel 1895 all’interno di un manuale intitolato Giuochi Ginnastici non vi era traccia della terminologia inglese. Tra gli affiliati alla Federazione Italiana Football e sulla stampa era invece consuetudine utilizzare in lingua originale la vasta gamma di termini calcistici appresi dagli inglesi […], referee (arbitro), match, goal, rush, faul, half time, shoot, corner, ecc”. Una inversione di tendenza si profilò nel 1907 quando la Gazzetta dello Sport accolse le istanze di purificazione del linguaggio sportivo avanzate da Luigi Bosisio, segretario della FIF, modificando l’intitolazione della rubrica “Foot-ball” in “Calcio”. La “giudiziosissima” proposta di Bosisio consentiva di: “iniziare l’invocata italianità del football sostituendo a questo ostico titolo straniero una parola italiana. La vera, la propria, la sua: quella onde veniva denominato il giuoco alle sue origini, allorquando la gagliarda gioventù vi si dedicava al tempo dei Comuni italici tra una battaglia e l’altra sulle spianate dei dolci colli toscani. Il Calcio”. (pag. 29)
Ancora oggi, gli anziani, in molte zone del nord Italia, continuano a chiamarlo con naturalezza “football” – retaggio delle originali radici global. Ma quanta ideologia si riesce a leggere, nelle trame della storia complessa dei migranti del pallone. L’epopea dell’oriundo, per esempio, un fenomeno che da inizio secolo si sviluppa potente, importando campioni e brocchi in Italia e costruendo su questi arrivi il mito di una nazione in crescita, in grado di invertire l’esodo dei suoi figli fuggiti dall’antica miseria. Sotto il fascismo il dispositivo ideologico si rafforzerà: l’oriundo è un italiano che la Patria riaccoglie a braccia aperte, nel segno della potenza dell’italianità etnica.
Spesso gli esiti erano tragicomici o ambivalenti: si inventavano ascendenze italiane finte o assai labili a cui tutti facevano finta di credere – più o meno come oggi. Inoltre, diversi oriundi che avevano giurato lealtà alla nuova Patria (e alle sue lire), tagliano la corda all’arrivo delle prime cartoline precetto che, in quanto neo- italiani, toccano anche a loro. Siamo alla fine degli anni Trenta e si sente puzza di guerra per tutti, calciatori e non.
Il tema dell’oriundo ritornerà come un mantra che attraversa le diverse epoche calcistiche, fino ai giorni nostri, con mediocri sudamericani che piombano direttamente alla convocazione in nazionale, senza neanche passare dal campionato; tutto grazie a qualche lontanissimo trisavolo – testimonianza di un movimento calcistico nazionale tragicamente impantanato dentro la sua crisi. Il caso Suarez-Juventus testimonia solo che i metodi da magliari, usati da alcune società, continuano ad andare di moda.
Nel corso degli anni Quaranta e Cinquanta l’emotività schizofrenica dell’opinione pubblica nei confronti di questi italiani di importazione, passerà dall’esaltazione all’esecrazione, allorché le fasi di crisi tecnica o economica del calcio italiano sfociano nell’eterna ricerca di capri espiatori. Mentre la nazionale va male, il tasso tecnico del campionato si abbassa, i grandi campioni internazionali scarseggiano e le società italiane cominciano a importare giocatori “normali”, va montando la polemica “sovranista”. Partono le inchieste giornalistiche e federali, per indagare sulla documentazione grazie a cui, generosamente, molti stranieri avevano conquistato il passaporto italiano attraverso corsie preferenziali. Anche questo è un problema aperto sul presente: il sangue, o la sua suggestione, rende possibile a circa quattro milioni di sostanziali stranieri, che vivono da decenni negli Usa o in Sudamerica – più o meno disinteressati all’Italia –, di esercitare il diritto di voto e utilizzare ogni altra prerogativa legata alla cittadinanza. Sempre in nome del “sacro sangue”, gli stessi diritti vengono negati a cittadini che crescono, studiano e lavorano per anni in questo paese.
Toccante anche la storia degli allenatori provenienti dall’area danubiana – che gli autori hanno il merito di riportare alla luce dopo novanta anni di semi-oblio. Austriaci e ungheresi, interpreti di una grande scuola calcistica, erano stati adottati e vezzeggiati per anni, come sprovincializzatori del calcio nostrano, in fatto di tattiche e metodi di allenamento. Diversi tra loro, di origine ebraica, si ritrovarono bruscamente esonerati dopo il varo delle leggi razziali. I giornali sportivi dell’epoca pubblicarono le notizie del loro siluramento in modo vergognosamente discreto. Gli autori riportano un agghiacciante frammento “rivendicativo”, estratto dalla rivista Lo sport fascista: “La vigorosa e decisa opera di difesa della razza intrapresa dal regime avrà naturalmente le sue conseguenze benefiche anche nel campo sportivo, per quanto, in fatto di atleti militanti, non debbano essere molti gli atleti ebrei. Riguardo al mondo calcistico, che è quello che ci interessa più da vicino, vi è però una categoria in cui si è trapiantata, crediamo, una discreta rappresentanza israelitica straniera, ed è quella degli allenatori. Non riteniamo di dover fare dei nomi, ma è certo che fra i moltissimi allenatori danubiani, non mancano gli israeliti. Ebbene, che costoro venuti tutti tra noi dopo il 1919, debbano fare le valigie entro sei mesi non ci rincresce davvero, poiché così finiranno di vendere fumo con quell’arte imbonitoria propria della razza, e lasceranno i posti a tanti ex giocatori di razza italiana, che sono benissimo in grado di tenerli e che al confronto con gli stranieri di cui sopra non sono inferiori che sotto una voce: la facciatosta! La bonifica della razza è pertanto destinata ad avere più che salutari conseguenze calcistiche”. (pag. 93)
Nel dopoguerra ancora aperture e poi la progressiva chiusura verso la fine dei Cinquanta – in nome della difesa del talento autoctono. “Nell’aprile del 1963 la Figc varò una nuova norma in base alla quale a partire dalla stagione successiva le società di serie A potevano tesserare non più di due giocatori provenienti da federazioni estere […]. Per la prima volta comparvero dei disincentivi economici: era consentito l’acquisto di un solo nuovo giocatore straniero ma con un contributo di trentacinque milioni da corrispondere alla Federcalcio. Nell’estate del 1963 gli acquisti sul mercato estero si ridussero a soli cinque nuovi stranieri. L’esportazione di valuta nel calcio mercato calò da circa un miliardo a 264 milioni. All’inizio del 1965 la federazione decise di sospendere il tesseramento di nuovi giocatori e allenatori stranieri fino al 31 luglio dell’anno successivo. […] Il blocco era temporaneo, ma il clamoroso fallimento della nazionale ai mondiali di Inghilterra nel 1966 (sconfitta con la Corea del Nord ed eliminazione al primo turno) convinse la Figc a prorogare il provvedimento per cinque anni, per poi rinnovarlo lungo gli anni Settanta”. (pag. 170)
La politica infeuda gli organismi federali, diversi presidenti di club importanti sono parlamentari o fortemente vicini a questo o quel settore governativo. Le politiche di bilancio, l’immagine dell’Italia, lo scontro politico interno, orientano il calcio italiano verso un regime di chiusure progressivo. Il football italiano diventa autarchico.
La chiusura durerà fino ai primi anni Ottanta, quando la diga cede definitivamente e da lì non si tornerà più indietro. Non solo per ragioni tecniche – lo spettacolo languiva e l’isolazionismo non lo aveva migliorato. Ma anche perché stava avanzando il principio giuridico della libertà di movimento dei lavoratori all’interno dell’allora Comunità economica europea. Sentenze e pronunciamenti iniziano nel 1979 e il dibattito sulla libera circolazione dei “lavoratori del calcio” in area continentale, si intreccia più in generale con le gigantesche modifiche istituzionali e giurisprudenziali che costituiranno l’ossatura di quella che oggi è l’Unione.
Per più di vent’anni, il campionato italiano – nell’arco di tempo compreso tra le ultime due vittorie mondiali – sarà il più ricco e attrattivo del mondo. I più grandi campioni del circo internazionale accettano la corte dei presidenti italiani e vengono a dare spettacolo da noi. Le squadre italiane arrivano con regolarità alle finali delle competizioni europee di club. La sentenza Bosman, che nel 1995 sancisce la definitiva liberalizzazione dei tesseramenti comunitari, è solo il punto di arrivo di un processo lungo e complesso. Anche qui, la vicenda del “calcio migrante” è lo specchio fedele del mutamento dell’assetto e della collocazione internazionale del sistema-paese.
L’attuale sostanziale libertà di circolazione degli atleti stranieri – in Italia e nel resto d’Europa –, ha contribuito a rendere il calcio sempre più prodotto globale e televisivo. Il tifoso-appassionato, ricondotto al ruolo di semplice membro della sterminata “platea” televisiva globale, è abbacinato dalle luci del mega show calcistico a portata di telecomando. Allo stesso tempo rimpiange i “bei tempi andati”, la retorica del calcio più umano, più genuino, meno “mercenario”. Ma è un dibattito aperto in tutti i capitoli dell’agenda politica e del sentire pubblico – qui davvero il calcio è elemento rivelatore di una storia collettiva: la tensione schizofrenica tra l’idea strapaesana di un Italia “sovrana”, e la piena immersione dentro la dimensione globale.
Nel calcio di oggi tutto si rappresenta in forme più esasperate. Le eccellenze italiane non eccellono più, i settori giovanili fanno schifo, il calcio ha smesso di essere sport di strada: in una classica inversione del rapporto causa/effetto, diventa facile addossare la colpa allo “straniero”, fantasma della cattiva coscienza del paese, della sua incapacità di autoriformare i suoi meccanismi più logori. La globalizzazione è faccenda complicata, dolorosa, tormentata – che si parli di macroeconomia, di delocalizzazioni, di vincoli di bilancio o di omini in mutande che corrono su un prato. Davvero un gran bel libro, questo di Gioacchino Toni e Alberto Molinari, che il lettore mediamente interessato all’argomento divorerà con gusto; ma anche una ricerca solida, che sta circolando con successo negli ambienti in cui si studia la sociologia dello sport, perimetrando un ambito di studio e dibattito ricchissimo di spunti per chi vuole capire in profondità questo paese. (giovanni iozzoli)