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9 Settembre 2019

Il cantiere occupato, gli operai e gli artisti. Fantasmi di una comunità perduta

(immagine di archivio)

È il 1972. Siamo nel porto di Napoli, più precisamente nel cantiere navale Pellegrino, occupato da più di due settimane. È assolutamente vietato continuare la produzione – quale armatore d’altronde pagherebbe la commessa direttamente agli operai? L’assenza dello stipendio si fa sempre più insostenibile, la lotta sempre più dura. Sostenere anche economicamente i lavoratori diventa una priorità, e allora – non è la prima volta – in un preciso punto della storia cittadina convergono operai, studenti, artisti, galleristi, intellettuali. È la consuetudine di un’epoca direte, eppure ricordarlo serve qui, oggi, a ricucire ogni singolo filo di quell’arazzo che chiamiamo tessuto sociale, a ricostruire una visione il più possibile d’insieme. Così ci siamo fatti raccontare come è andata da Nando Gaeta, allora fervente attivista del movimento studentesco dell’Accademia di Belle Arti, poi prezioso docente di educazione visiva. 

Eravamo sempre presenti alle loro manifestazioni. Instaurammo un rapporto fraterno con gli operai. Per aiutarli a sostenersi nello scontro con i padroni decidemmo di organizzare una mostra, vendere le opere e dare il ricavato agli operai.

In quel periodo avevo un ottimo rapporto con Cesare Vivaldi, una persona splendida, docente di Storia dell’arte in Accademia, mi voleva un gran bene, pensa che ogni volta che finiva le lezioni lo accompagnavo a prendere il treno alla stazione centrale – abitava a Roma –, prendevamo sempre il caffè insieme. Gli telefonai dicendo: professore, sono qui, insieme agli operai del cantiere Pellegrino che stanno in occupazione… così, così, così, e quindi volevamo raccogliere delle opere da vendere per sostenere, anche con poco, gli operai. Mi disse: non ti preoccupare, vediamoci a via dei Condotti. Mi diede appuntamento in quel famoso caffè Greco, dipinto anche da Guttuso, allora ritrovo degli intellettuali romani. Arrivai lì con due operai, il professore ci portò dentro, chiamò un cameriere – vedessi con che rispetto veniva trattato! –, spiegammo il nostro progetto mentre arrivavano caffè e pastarelle. Il professore con un gesto elegante richiamò il cameriere e si fece portare carta e penna. Ci scrisse una lettera. Poi, su un altro foglio, tutti gli indirizzi degli artisti, con numero di telefono. Quando andrete lì, ci disse, presentate la lettera e non vi preoccupate. Grazie a lui abbiamo raccolto opere dei migliori artisti dell’epoca: Accardi, Brunori, Perilli, Franco Angeli – quello che poi si suicidò giovanissimo. Ho anche litigato con qualche artista. Ricordo che andammo a casa di Toti Scialoja, una casa principesca, ci aprì un maggiordomo. Entrammo, consegnammo la lettera e lui ci disse: e che devo fare con questa? Io non do niente.

Poi andammo da Castelli, uno scultore. Aveva insegnato a Napoli, dove fu assistente di Emilio Greco, ma adesso insegnava all’Accademia di Roma. Consegnammo di nuovo la lettera, lesse, ci lasciò sulla soglia e ritornò con cinquantamila lire in mano. Rifiutammo. La nostra era una operazione innanzitutto culturale. Volevamo che tutti gli intellettuali, tutti gli artisti, prendessero posizione e sostenessero con un loro lavoro, mettendoci la faccia, la lotta del cantiere Pellegrino.

Dopo la raccolta delle opere – quante ne prendemmo!, in gran parte serigrafie c’è da dire, qualcuno ce ne regalò anche due, tre – telefonai al professor Vivaldi e gli raccontai del comportamento di Scialoja. Ma tu che dici? Veramente? E io che stavo per fargli la presentazione per un catalogo… col cazzo che gliela scrivo adesso!

Ovviamente tutti gli artisti di Napoli diedero qualcosa. Persino Emilio Notte ci diede un pezzo, già aveva ottantacinque, forse ottantasei anni all’epoca. Me lo ricordo bello, con la sua lunga barba, una persona eccezionale. Raffaele Lippi non ricordo bene se ci diede un disegno o un pezzo proprio. Ruotolo, Scolavino, Pisani, tutti, anche quelli che simpatizzavano per i democristiani. Senza contare i pezzi degli allievi dell’Accademia. Con tutte quelle opere in mano adesso mancava solo uno spazio dove organizzare l’esposizione. Se c’era qualcuno che avrebbe potuto aiutarci quello era sicuramente Paolo Ricci, così andai a casa sua – abitava al Parco Grifeo – e gli spiegai tutta la questione. Lui mi disse solo: vi piacerebbe la Galleria Mediterranea? Ovviamente ne fummo entusiasti. Si mise al telefono, chiamò Nello Ammendola, il fondatore della galleria, e prese appuntamento per il giorno dopo. Volle sapere i tempi, le modalità, certo, ma si mise a nostra completa disposizione.

Non facemmo un catalogo ovviamente, non avevamo una lira, e poi i soldi servivano per gli operai. Stampammo solo un manifesto, apposta per quelli che non potevano comprare le opere, si vendeva a cinque o diecimila lire, uno lo comprò anche Lucio Amelio, che però fece un’offerta maggiorata. La mostra durò due settimane, riuscimmo a vendere tutto, ci fu gente che lì ha fatto begli affari, compravano quattro, cinque, sei pezzi. Incassammo in tutto, se non ricordo male, tre milioni e mezzo. All’inizio degli anni Settanta erano una cifra consistente. E tieni presente un’altra cosa: tutta l’impaginazione delle opere, le cornici, la facemmo nel cantiere Pellegrino, insieme agli operai che lì disponevano di tutto l’occorrente. Pensa che con alcuni di quegli operai sono rimasto in contatto fino alla loro morte, ci scrivevamo saltuariamente, ci facevamo gli auguri per le feste.

Di tutto questo, oggi, resta solo il manifesto, per chi l’ha conservato, e un paginone de L’Unità scritto da Paolo Ricci, però per noi fu una grande manifestazione, politica oltre che culturale. (cyop&kaf)

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