
da Napoli Monitor n°49, Giugno 2012
Ho conosciuto Mitra Azar un paio di anni fa, per via di connessioni virtuali e coincidenze spaziali. Amici e interessi in comune ci hanno fatto incrociare sulle piattaforme della rete, e nonostante l’immaterialità del supporto, è nata una solida amicizia. Siamo passati per gli stessi posti, con lui che andava dai miei amici in Turchia mentre io contattavo i suoi in Danimarca. Era in viaggio di ritorno dall’Iran, dove aveva passato mesi a stretto contatto con il movimento sorto contro la dubbia rielezione di Ahmadinejad alla presidenza del paese. Quella protesta, destinata a crescere e trasformarsi nella “rivoluzione verde” iraniana, aveva assorbito le sue energie e reclamava di essere raccontata, l’aveva sospinto nelle maglie dei collettivi di attivisti virtuali e urbani, fino a fargli saggiare le sedie per gli interrogatori di un ufficio dei servizi di sicurezza che trovava qualcosa da ridire sulla sua spiccata curiosità. Le descrizioni e le analisi maturate hanno trovato posto nel un libro Iran contro Iran (Mimesis Edizioni, Milano 2011), un testo che sovverte la linearità grafica del formato libro accostando descrizioni diaristiche degli eventi alle molteplici fonti del fitto scambio di messaggi, e-mail e tweet intercorso tra gli attivisti iraniani e il mondo esterno, quando la censura voleva zittire la fuoriuscita di informazioni sulla repressione.
L’interesse di Mitra per le interazioni tra online e offline è una costante dei suoi progetti, come anche la pratica di andare sul posto, spesso senza copertura alcuna, a vivere insieme con le persone i loro tentativi di emancipazione dai regimi autoritari. Io lo definisco un esploratore partecipante, mosso da inclinazioni etiche pressanti e capace di scrollarsi di dosso la saccente attitudine occidentale a ingabbiare i fenomeni in rassicuranti semplificazioni. È nato in Italia, ma ha cominciato a muoversi presto tra i confini, conciliando la sua formazione artistica e filosofica con l’impulso a narrare il cambiamento delle forme politiche nell’impatto con le nuove tecnologie. L’ho abbracciato quando è venuto a Napoli a mostrarci le ricerche in corso, nell’ambito della seconda edizione di “Chi racconta la città”, organizzato da Napoli Monitor. Armato di attrezzature audiovisive e taccuini, viaggia da un anno e mezzo nei paesi arabi seguendo i tentativi rivoluzionari. Dopo questa intervista è tornato in Egitto. Attualmente, spero che le sue molte identità siano tutte al sicuro.
Mitra Azar, chi sei?
«Ho qualche difficoltà a definire la mia identità e il mio operato. Da un lato, perché il modo comune di intendere il concetto di identità deriva da un pensiero categorico nel quale non mi riconosco, che concepisce l’identità come essere qualcosa piuttosto che qualcos’altro, come A = A, e nient’altro. Dall’altro lato, perché cerco di lavorare a cavallo tra generi e stili. Questo modo di essere e di fare origina anche dalla mia formazione, che si è articolata tra filosofia, cinema, new media e arte contemporanea. Da un punto di vista geografico, cerco sempre più spesso di “delocalizzarmi”, non tanto per cercare un’identità quanto piuttosto per continuamente perderla e ritrovarla, senza più riconoscerla, e da lì ripartire. Qualcuno potrebbe definirmi un media-attivista. Semplicemente, credo nel valore politico dell’espressione artistica in senso lato, al di là dei formati e dei contenuti. Da un anno e mezzo mi muovo costantemente tra alcuni dei paesi che attraversano i postumi della primavera araba, cercando di capire cos’è accaduto e cosa sta succedendo, in diversi modi, prevalentemente attraverso l’uso delle immagini».
Definisci il tuo lavoro artistico e di ricerca.
«Il percepire e l’abitare il mondo sono l’origine del pensare, anche di quello più concettuale. Il mio obiettivo è quello di proporre delle ri-percezioni delle mie esperienze attraverso il maggior numero di media e codici, cercando di contaminarli e influenzarli reciprocamente. La mia ricerca artistica è intesa come una forma di “schizo-creazione”, attraverso la quale cerco di investigare le mie identità in relazione alle tecniche disponibili, nel tentativo di interrogare il “mondo-attorno”. I temi che preferisco sono la relazione tra immagine e linguaggio, il concetto di istante e di simultaneità, la pratica del frammento e dell’interstizio, la relazione tra spazio pubblico e spazio privato, il potenziale politico dell’uso dei social media».
Perché agire sotto pseudonimo?
«Da un lato c’è una ragione pratica, nell’ordine di quelle che preferiscono l’anonimato piuttosto che finire nei taccuini neri di qualche funzionario governativo. Dall’altro c’è la convinzione nella sopravvivenza della dominante reattiva del principio d’identità, che prende il sopravvento nell’osmosi tra l’artista e il mondo circostante. Per ora ho deciso di applicare un criterio geografico, quindi – da quando sono in Medioriente – sto adottando un unico pseudonimo: Mitra Azar».
Qual è l’effetto politico dell’interazione tra nuove tecnologie e movimenti popolari nel contesto delle cosiddette rivoluzioni arabe?
«Per quanto mi riguarda è ancora un mistero. Impossibile proporre una riflessione compiuta sul tipo di approccio che questi popoli stanno mostrando nei confronti della rete, e anche su quanto e come la cultura occidentale stia filtrando nei paesi arabi attraverso gli schermi di computer, tablet e telefonini. In generale, vale la pena di ricordare che si tratta di giovani popolazioni per le quali l’accesso alla rete non è ancora dato per scontato: sia per ragioni politiche (la censura di molte delle piattaforme più comuni in rete), sia per ragioni tecno-geografiche (ampie zone desertiche, infrastruttura telematica sporadica). Tuttavia, né l’uno né l’altro limite sembrano agire da deterrente, anzi. La curiosità viene soddisfatta (anonimamente) attraverso l’uso di proxy aggiornati e attraverso un passa parola telefonico che dalle città e dai villaggi online raggiunge anche le zone più isolate e gli individui meno esposti al flusso delle informazioni in rete. Cercando una sintesi visiva si potrebbe immaginare un percorso circolare che da un dilemma offline genera una campagna online (upload), che a sua volta cerca nuovamente di riversarsi nel mondo reale (download), carico del potenziale virtuale accumulato in rete. In questo senso, campagne di sensibilizzazione nei confronti delle fasce della popolazione che non hanno accesso a nient’altro che alla televisione di stato vengono portate avanti da gruppi di attivisti che cercano di colmare l’analfabetismo digitale facendo circolare il maggior numero di informazioni censurate dai regimi».
Parlami degli attivisti che hai incontrato.
«Uno dei collettivi che sto seguendo al Cairo si chiama Kazaboon. Il loro ciclo di lavoro comincia attraverso un pagina Facebook e un sito che è un semplice application form nel quale si chiede all’utente che tipo di evento Kazaboon vuole organizzare, dove, e di che tipo di supporto logistico ha bisogno. Kazaboon significa menzogna. Un evento Kazaboon è un evento che svela le bugie intorno al regime militare in carica, attraverso videoscreening, concerti, graffiti workshop. Un amico, Ganzeer, ha organizzato una graffiti week online durante la settimana precedente all’anniversario della caduta del regime Mubarak, il 25 gennaio scorso. Sulla sua pagina Facebook è ancora possibile scaricare pagine di stencil pronti a essere pittati sui muri del Cairo. Ecco un altro esempio di circolo virtuoso dall’online all’offline. Il progetto è decentralizzato: nuclei autonomi di persone possono declinare l’idea e realizzarla indipendentemente, o cercare il supporto logistico necessario – gli stencil ready-made di Ganzeer, il proiettore e le casse per la proiezione en plein air da parte di qualche ambasciatore del collettivo Kazaboon, magari anche in grado di allacciarsi abusivamente ai pali della luce per attaccare il tutto e far partire la giostra.
«Uno dei nuovi progetti su cui il collettivo Kazaboon sta lavorando consiste nella creazione di una mappa interattiva online che cerca di mostrare dove la giunta militare stia infiltrando i propri uomini nella struttura dell’amministrazione pubblica. La mappa è una piattaforma contro-narrativa aperta, accessibile da chiunque voglia partecipare o sia a conoscenza di funzionari militari intenti a insediarsi in posizioni amministrative civili. Si tratta di una sorta di leaking platform, ancora una volta decentralizzata, che tuttavia preserva un controllo sulle informazioni che distribuisce attraverso una rete capillare di nuclei Kazaboon indipendenti sparsi sul territorio, che oltre a diffondere la voce nelle province di competenza si preoccupano di verificare che i dati provenienti dai cittadini siano veritieri. Dopo aver mostrato le violenze dei militari contro la popolazione civile, attraverso gli screening pubblici illegali, ora Kazaboon punta a mostrare come i processi di potere non siano – come ci ha spiegato Foucault – soltanto repressivi, ma anche attivo-creativi. Le immagini sono armi e, in effetti, le immagini sono le uniche armi a disposizione dei ribelli. Ho incontrato questa consapevolezza già ai tempi della Green Revolution iraniana, e in modo ancora più sistematico tra i cyber-attivisti della rivoluzione siriana in corso».
Le nuove tecnologie come detonatore di trasformazioni sociali?
«Sicuramente la diffusione dei nuovi media e l’ibridazione tra essi e i media tradizionali stanno giocando una parte importante nella formazione dei nuovi scenari socio-politici mediorientali. Non voglio sostenere la tesi di chi crede nel potere liberatorio delle nuove tecnologie, ma credo che ci sia in esse del potenziale interessante per creare nuove forme di partecipazione, diverse anche dalla noiosa e arrugginita versione democratica occidentale. Se da un lato il citizen journalism crea dei problemi in termini di abuso, allo stesso tempo la partecipazione diretta dei cittadini alla creazione dell’informazione trasforma la percezione passiva della televisione in una fionda pronta a reagire ai commenti degli spettatori e alle informazioni in tempo reale lanciate in rete dall’interazione fra gli utenti. La domanda irrisolta risiede forse nella modalità con la quale i mass media filtrano la valanga di informazioni raggiungibili in rete: l’esempio di come i diversi media a seconda del loro orientamento politico hanno gestito la diffusione dei cablogrammi di Wikileaks è stato in questo senso lampante… Bisogna però considerare il fatto che i citizen journalist si stanno riorganizzando attraverso portali di diffusione autonoma, ritagliandosi nicchie sempre più ampie di followers, e in questo senso forse sono pronte a essere ripensate, indipendentemente dal funzionamento dei media tradizionali; o meglio, in loro diretta alternativa e concorrenza. Quando Nadine – una delle fondatrici di Kazaboon – mi dice che non c’è nessun riferimento alle democrazie occidentali alla base delle richieste dei movimenti rivoluzionari, quanto piuttosto una spinta verso nuove forme di e-government, mi godo la speranza che anche nel mondo arabo la lentezza delle democrazie finanziare occidentali non soddisfi più il bisogno di nuove forme decisionali da parte di frange sempre più consistenti di giovani cittadini, arabi ma anche occidentali ».
Che ruolo ha l’arte in questi movimenti di protesta?
«In contesti di rivolta l’arte rappresenta la fissazione e la prefigurazione di nuovi modi di sentire e pensare, racconta la rivoluzione ed è strumento di critica nei confronti del regime al potere. Ma l’arte rivoluzionaria è pur sempre scontro e battaglia, per esempio nell’appropriazione degli spazi pubblici e nel costante tentativo da parte dei sostenitori del regime di cancellare i segni di protesta dai muri del Cairo, uno dei più importanti medium in gioco nella guerra d’informazione in corso in Egitto. Immagini di militari intenti a mangiare corpi di civili, facce dagli occhi bendati in onore dei rivoluzionari accecati dalle pallottole dei servizi di sicurezza, giganteschi carri armati che schiacciano un manipolo di egiziani in memoria del massacro di Maspiro, stencil raffiguranti alcuni dei soldati riconosciuti responsabili delle violenze con sotto la scritta WANTED, e in alcuni casi indirizzo di casa e numero di telefono. Senza dubbio l’arte rivoluzionaria è spietata. Rappresenta tutto ciò che deve essere detto di nuovo, rimodulato, o che detto non è stato mai. Espressività che sfugge alla dittatura della legge perché si rivolge alle comunità future, più che a quelle presenti».
Come entri nelle vite delle persone che racconti?
«Cominciamo dal principio: le ricerche iniziano in rete, nella consapevolezza che l’ottanta per cento delle informazioni e delle aspettative saranno smentite sul posto. Parte della ricerca consiste anche nel prendere contatto con i locali e cercare di attingere direttamente dalla fonte. Una volta in loco – e debitamente riformulato il progetto, quasi giornalmente – cominciano i crucci comportamentali. Come approcciare chi, perché, ma soprattutto come. Per quanto mi riguarda, credo di aver imparato a visualizzare una sorta di tabula rasa provvisoria da cui cerco di farmi attraversare quando ascolto qualcuno, ciò mi permette una sorta di partecipazione meravigliata, un coinvolgimento ingenuo, in attesa di qualcosa in corso, ma non ancora del tutto. A volte mi sono sentito in dovere di girare, a volte mi è sembrato di rubare… La paura di filmare. La paura è uno dei più affascinanti strumenti di conoscenza. Quando si ha paura si è in agguato, come gli animali. Quando si è in agguato i sensi si acuiscono e si entra in una sorta di esasperato vitalismo che predispone alla percezione dei dettagli. La ricerca del limite è una delle cause della paura. Il limite è una fonte di bellezza perché ciò che deriva dal limite è frutto di un continuo perdere il controllo e ritrovarlo. Filmare nel mezzo di un riot è un’esperienza estatica proprio per la tensione tra la parte animale della sopravvivenza e del movimento automatico del corpo e il tentativo di controllarlo razionalmente, per cercare di creare un’inquadratura, e una storia. Il mio approccio cerca di essere quello della trasformazione impossibile del filmmaker nelle storie che racconta, il desiderio di lasciarsi penetrare da esse piuttosto che l’impulso contrario: quello di controllarle e formarle. Non c’è salvezza per chi è raccontato, né immortalità per chi racconta. Tanto meno c’è il tentativo di spiegare, educare, colonizzare o migliorare la realtà che si racconta. Piuttosto, c’è la regressione e la perdita d’identità dell’autore nella storia percepita, il tentativo di diventare trasparente attraverso quello di diventare ciò che si vuole raccontare. In questo perdersi negli altri, e nella storia, c’è la morte dell’artista, e l’onesta del racconto». (salvatore de rosa)