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reportage
29 Ottobre 2019

Il popolo in strada in Cile. Non per trenta pesos, ma per trent’anni di neoliberismo

(disegno di malov)

Pubblichiamo una lettera di Paulo Álvarez Bravo, membro del Comitato di difesa e promozione dei diritti umani de La Legua Emergencia, uno dei quartieri periferici di Santiago più duramente colpiti durante la dittatura di Pinochet. Lo scritto è del 25 ottobre, poco prima della manifestazione più grande della storia del Cile.

Al momento di scrivere queste righe, migliaia di cileni e cilene sono ancora nelle strade principali di tutte le città del paese. Il loro scontento è pieno di ragioni: al punto che la parola scontento diventa quasi troppo diplomatica, di fronte a quello che sta prendendo forma nelle città, nei villaggi, nelle istituzioni pubbliche e nelle entità private del paese. Non c’è uno spazio socio-politico, culturale, sportivo, che non sia stato coinvolto in questo processo, latente da tempo. Un’impotenza esplosa quando gli studenti delle scuole secondarie hanno disobbedito all’aumento delle tariffe della metropolitana imposto dal governo, invitando la gente a fare altrettanto.

L’autorità ha disprezzato la forza delle loro rivendicazioni, manifestate dopo decenni di sottomissione verso i continui rialzi del costo della vita imposti dalle forze imprenditoriali e governative. Questa volta l’indignazione ha catturato l’intero paese. Per una settimana la gente si è riunita senza distinzioni di età, genere o provenienza, in una polifonia di azioni di disobbedienza che finora sembra impossibile fermare.

Nelle manifestazioni che hanno riempito le avenidas e innervosito classe politica e settori economici dominanti, gli slogan erano: «Il Cile si è svegliato» o «Non sono trenta pesos, sono trenta anni». Il governo di Sebastian Piñera è passato dal nulla al nervosismo totalitario, così presente in gran parte della storia dell’America Latina. La mancanza di intelligenza e di prospettiva politica, così come l’immensa voglia di azzittire o cancellare tutto ciò che mette in dubbio l’immagine di un paese stabile, moderno, vicino alle grandi economie, hanno annebbiato le decisioni dell’esecutivo. Mettersi a dialogare, costruire un tavolo intersettoriale, aprirsi a cambi strutturali con nuove prospettive e nuovi attori? No. Il governo ha preferito assumere la retorica del terrore, militarizzare il paese, rispolverare l’argomento del “nemico interno” che da decenni rientra nella logica di morte imposta dalle dittature.

Per un uomo come l’attuale presidente del Cile – asceso al potere durante il regime, come molti altri personaggi della sua cerchia –, per quelli che hanno preferito non vedere né ascoltare la sofferenza del popolo, vessato nei suoi diritti e offeso nei suoi corpi quando la dittatura militare attaccava il suo nemico immaginario, potrebbe anche essere plausibile che la disobbedienza civile significhi solo furti e vandalismo; che, sebbene ci siano, si scioglierebbero subito di fronte a una politica matura, democraticamente ancorata, garanzia di uno stato di diritto, capace di non acuire le tensioni sociali. Ma non solo il governo non è stato in grado di leggere le profonde rivendicazioni di giustizia sociale e cambiamento strutturale; ha cercato anche di terrorizzare la sua gente, giustificando i carri armati in strada, i voli degli elicotteri raso terra, lo stato d’emergenza, il coprifuoco.

È venerdì 25 ottobre, sta per iniziare l’appuntamento per la manifestazione più grande della storia del Cile, al centro della città, nell’emblematica piazza Italia. I convenuti riempiranno la Alameda, la stessa strada dove negli ultimi giorni della sua esistenza il presidente Allende immaginava che avrebbe camminato l’uomo libero, erede di una società più giusta. Il popolo si autoconvoca, ed è pronto a offrire i propri corpi alla brutalità repressiva, perché fondamentalmente vuole un sistema che lo prenda in considerazione, che rispetti la sua dignità, che valuti le sue vere condizioni, che dia significato alla sua vita. Il popolo vuole creare le condizioni per rovesciare la diseguaglianza programmata e l’iniquità del modello neoliberale, garantendo un accesso meno ristretto alla salute, all’educazione, alla prevenzione, creando leggi più eque che frenino la concentrazione di ricchezza e di potere nelle mani dei soliti privilegiati, coloro che hanno fatto della modernità capitalista un’eufemistica promessa di progresso per tutti.

Il popolo è coraggioso. Ha mantenuto salde le sue richieste per oltre una settimana; invece di ridurre ha aumentato la sua presenza in piazza. Quello che si chiede con le parole e le grida, è un nuovo patto sociale: un patto che sia in grado di rappresentare i diversi punti di vista, politici, sociali, culturali, economici e affettivi. Un patto che metta fine alla costituzione elaborata dai tecnocrati di Pinochet, resa effettiva in democrazia, e che protegge senza giri di parole la logica neoliberale e lo status quo dei potenti in carica. Ma il governo risponde con il discorso del caos interno, e con una serie di strumenti che definisce sociali, affermando che ha “ascoltato i cittadini”. Nessuno di questi strumenti intacca davvero il modello economico o la costituzione, quindi non risponde a ciò che chiede il popolo (non “i cittadini”), cioè di farla finita con le diseguaglianze strutturali.

L’insolenza del governo che ha dispiegato l’esercito nelle piazze non dimostra solo la mancanza di guida politica e la paura dei settori dominanti. Ci sono altri due aspetti. In primo luogo, il governo di Piñera e la destra politico-militare-economica-mediatica in Cile insistono nel considerare questo processo non come una mobilitazione trasversale che ha richieste molto ben definite, ma come semplice violenza e vandalismo, il che giustificherebbe la definizione delirante di “una guerra contro un nemico potente”. Criminalizzando la protesta, questo governo mostra come non sia in grado di capire la sofferenza di chi si ritrova carri armati, armi, elicotteri e compatrioti in uniforme da guerra non messi al servizio di ciò che il popolo non può affrontare, bensì per reprimerlo violentemente.

In secondo luogo, solo chi ha fame di potere può ignorare il dolore della gente. La decisione del governo di Piñera è uno schiaffo alla vita delle persone, alla memoria del suo popolo e al dolore senza giustizia di tanti e tante che furono fatti sparire, assassinati, torturati, arrestati, perseguitati, esiliati e sottomessi a tante vessazioni, molte delle quali innominabili, come le ansie di recuperare la pace intima e sociale, il desiderio fecondo di un paese vero, umano e dignitoso.

Ogni singola volta che i militari sono scesi in piazza in Cile, è stato per servire i potenti. Si sono pagati da soli con i bottini dei saccheggi, sono stati celebrati nella memoria pubblica e trattati come eroi nella lunga durata della storia ufficiale. Questa non è un’eccezione. Una settimana dopo che Piñera ha comandato all’esercito di vigilare per “la pace e sicurezza della popolazione”, secondo l’ultimo rapporto dell’Istituto nazionale dei diritti umani del Cile (INDH), pubblicato il 25 ottobre 2019 alle 22, ci sono già 997 feriti, 3.167 arrestati (l’11% dei quali minorenni), 80 cause giudiziarie tra cui 5 omicidi e 15 denunce per violenza sessuale. Nei villaggi e nelle periferie non ci sono dati ufficiali su queste situazioni, e la maggior parte di esse non saranno mai registrate dagli organi formali, ma rimarranno annidate nel nostro seno, finché non esploderanno. Come esploderanno la rabbia e l’indignazione per i trenta e più anni di indolenza sistemica neoliberale e costituzionale cilena, che il popolo ora esige di terminare. (paulo álvarez bravo / traduzione di stefano portelli)

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