Il 28 luglio si è svolta a Napoli, a piazza Garibaldi, un’assemblea in solidarietà con il popolo del Bangladesh. La piazza era animata e vibrante: uomini, donne e bambini si sono riuniti sotto la bandiera del proprio paese, supportati dall’Associazione 3 febbraio, per decidere come muoversi di fronte al degenerare delle proteste e della reazione governativa nel paese. Sui cartelli dei manifestanti scritte come: “In Bangladesh sono in corso arresti di massa! Migliaia di persone sono scomparse!”.
Dagli inizi di luglio gli studenti protestano chiedendo l’abolizione del cosiddetto sistema delle quote per accedere agli impieghi pubblici, a favore di un sistema basato sul merito. Le proteste sono iniziate pacificamente, ma sono degenerate quando il governo ha inviato polizia e forze paramilitari per fermarle. Da quasi un mese continuano gli scontri tra studenti, polizia e sostenitori della prima ministra Sheikh Hasina, capo del governo ininterrottamente dal 2009. La situazione è peggiorata nelle ultime due settimane, quando la polizia ha iniziato a sparare contro gli studenti. Attualmente, le vittime sono quasi duecento.
«Fin dalla conquista dell’indipendenza, nel 1971 – spiega Soma al telefono –, il trenta per cento dei posti di lavoro nel settore pubblico veniva riservato ai combattenti per la libertà. Nel 1997 il governo ha esteso la quota ai figli dei combattenti, e nel 2010 anche ai nipoti. Questa modifica ha suscitato il malcontento degli studenti, portando alla nascita del movimento “Riforma della quota” nel 2013, che però non ha ottenuto cambiamenti significativi. Nel 2018 gli studenti ci hanno riprovato, costringendo il governo, già allora guidato da Hasina, a intervenire sul sistema. Inizialmente gli studenti non chiedevano la completa abolizione del sistema, perché, oltre alle quote per i veterani, c’erano anche quote riservate a minoranze, come l’un per cento per le persone con disabilità e il due per cento per donne e minoranze etniche. Ciò nonostante, quest’anno il cinquantasei per cento dei posti è stato riservato ai combattenti e ai loro familiari».
Il malcontento degli studenti è alimentato dalla forte disoccupazione giovanile: oltre ottocentomila neolaureati sono senza lavoro, mentre l’impiego pubblico, sicuro e ben retribuito, mette a disposizione solo tremila posti l’anno. La questione delle quote, però, cara alla premier Hasina, è anche simbolica: la guerra di indipendenza fu combattuta infatti sotto la guida di suo padre, che fu anche primo presidente del paese e fondatore del partito attualmente al potere, più volte coinvolto nelle dinamiche di corruzione per l’assegnazione dei posti di lavoro pubblici. Di fronte alle proteste, il governo ha imposto un coprifuoco nazionale con “tiro a vista” e ha interrotto l’accesso a internet, isolando il Bangladesh dal resto del mondo. Un blocco senza precedenti, che impedisce la diffusione di notizie e limita la capacità dei manifestanti di organizzarsi.
Razo è un giovane della comunità bangladese. Condivide con me la sua preoccupazione: «Il governo sta sparando sugli studenti. Protestano perché la situazione è di forte crisi: molti ragazzi che hanno studiato non riescono a trovare lavoro, mentre altre migliaia di persone vi accedono producendo certificati falsi. Il governo ha arrestato non solo gli studenti, ma anche i loro genitori…».
Con un cordino rosso in testa e tanta energia, Razo è una figura centrale nella manifestazione. È tra i pochi presenti a saper parlare italiano, e funge da mediatore tra i suoi concittadini e i pochi giornalisti e curiosi presenti. Gli chiedo come fanno a rimanere in contatto con i loro cari, lui mi spiega che al momento è solo possibile effettuare qualche chiamata, mentre la priorità per il governo è che non circolino le immagini delle manifestazioni: «Io ho trent’anni, ma già a dieci avevo capito questo governo: alla minima opposizione si paga con la morte».
Col passare del tempo la manifestazione prende vita e i cori risuonano tra le strade adiacenti alla piazza. La folla si distingue per una varietà di striscioni e cartelli con messaggi di solidarietà e richieste di giustizia. In un angolo, un gruppo di persone distribuisce volantini informativi e offre spiegazioni sui motivi della protesta.
Hasfa e Saima sono sedute sui gradini dell’arena della piazza. Il loro volto è quasi completamente nascosto dal velo, che ne lascia appena intravedere gli occhi. Chiedono giustizia per gli studenti uccisi, e protezione per quelli che stanno protestando: «Tutti gli studenti in Bangladesh oggi sono in pericolo. Non possiamo accettarlo perché i giovani sono il futuro della nostra nazione». Il padre di Saima è stato un combattente per la libertà nella guerra contro il Pakistan, eppure né lei né i suoi familiari hanno mai beneficiato della quota: «I leader della nazione vogliono gestire senza giustizia il beneficio della quota, assegnando i posti anche quando non ci sono le condizioni e i requisiti». Hasfa aggiunge: «È per questa giustizia che i nostri genitori hanno combattuto?».
La questione degli studenti è solo una parte di una situazione estremamente complessa. Al di là dell’accesso al lavoro per gli universitari, i manifestanti chiedono uguali opportunità per tutti i cittadini, compresi coloro che non appartengono alle classi al potere. Per provare a sostenere i loro concittadini, i bengalesi si stanno attivando in tutto il mondo, cercando di sensibilizzare l’opinione pubblica e chiedendo un intervento della comunità internazionale. Anche a Napoli sono annunciate nuove azioni per mantenere alta l’attenzione sulla crisi, fino a una grande manifestazione, probabilmente a inizio settembre. (serena bruno)