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21 Febbraio 2019

La dismissione del porto franco di Tangeri, un’altra storia di gentrification

Lucia Turco
(archivio disegni napolimonitor)
(archivio disegni napolimonitor)

«Duty free, duty free». Mohamed Selassi si aggira tra le nuove costruzioni intorno a TangerMed, curve di strade d’immissione e uscita, tra reti e campi ai lati e spartitraffico a ogni diramazione; domanda a ogni uomo in divisa che incontra: «Duty free, duty free?». Mohamed è marocchino, abita a Dallas da molto tempo; si è trasferito da ragazzo, proviene da una famiglia umile delle campagne di Fès ed è riuscito a studiare ingegneria; oggi è uno dei tanti anelli del sistema di rendita su cui si basa quasi la metà della ricchezza del paese. Torna di tanto in tanto, e allora io divento la sua guida su Tangeri che, per lavoro di ricerca e tempo di vita, mi pare di conoscere ormai come le mie tasche.

Mohamed crede che TangerMed abbia sostituito l’antica zona franca portuale e tutto ciò che essa rappresentava, il contrabbando e il duty free. Creata l’1 gennaio 1962, si poneva in linea di continuità con lo statuto di Città Internazionale di cui godeva Tangeri dal ’23 al ’56 e che fece della città luogo di capitali pirati protetti a suon di relazioni consolari. Una volta riannessa al paese, Tangeri perse lo statuto internazionale e la creazione del Porto Franco cercò di mantenerne i vantaggi fiscali al fine di contenere la partenza di capitali stranieri che, inevitabilmente, si verificò.

Il 3 marzo 2010, anno della creazione della Zona di Libero Scambio nel Mediterraneo, viene ufficialmente annunciata la dismissione della zona franca a favore della realizzazione di un port de plaisance per la cui gestione viene creata la SAPT (Société d’Aménagement pour la Reconversion de la Zone Portuaire de Tanger). Le attività industriali ivi localizzate vengono progressivamente dismesse e buona parte viene delocalizzata nella zona industriale di Gzenaya, collocata davanti la zona franca TFR, o vengono assorbite alle aree industriali connesse a TangerMed.

La dismissione s’inserisce in un processo di gentrification della zona costiera, battezzata come nuova vetrina per l’occhio straniero: imponenti grattacieli, ristoranti, alberghi dalle pareti vetrate e un’intensa illuminazione notturna.

I lavori del porto, nonostante i ritardi sulla tabella di marcia, sono quasi terminati: le prime attività funzionanti, a partire dall’estate 2017, sono les boîtes de la nuit. Si è andato creando quel panorama duplice che accompagnerà l’intera atmosfera di viaggio del turista nella città sullo stretto, quell’incontro tra modernità e tradizione cristallizzato dalla compresenza del vecchio porto: da un lato i piccoli ristoranti popolari di pesce, i gatti che s’aggirano tra i tavoli in attesa di avanzi e anziani venditori di fazzoletti imbevuti di limone a due dh (venti centesimi di euro), dall’altro il nuovo porto turistico, con gli ormeggi per le barche di lusso e i locali per la vendita di alcool.

«Kuwait, Arabia Saudita, sono loro che hanno fatto tutto questo, come in tutti i paesi: c’è il bar e c’è la moschea, dove vuoi andare? Vuoi andare alla moschea, vuoi andare al bar?», così ironizza Youness, pescatore tangerino. Ma chi paga le spese di questo passaggio dalla tradizione alla modernità? «Questa zona turistica si è costruita sulle spalle e sull’emarginazione dei lavoratori», afferma Tourya, ex operaia nel settore del tessile. Numerosi saranno i casi di licenziamenti senza giusta causa delle operaie impiegate a favore di nuove assunzioni più flessibili o di strumentali dichiarazioni di fallimento delle fabbriche al fine di creare delle società ex novo. Hamza, pescatore da quindici anni nel porto di Tangeri sostiene: «Prima era molto meglio, le persone lavoravano, anche gli spagnoli vivevano qui; tutta la gente del Marocco e anche della Spagna passava da qui. Quando hanno fatto il porto nuovo, la gente non ha più lavorato. Le grandi navi si sono tutte spostate a TangerMed e hanno lasciato solo le barche di Tarifa. Il diritto qui non c’è».

Hamza sottolinea il non coinvolgimento della gente nella pianificazione e riconfigurazione del porto: «Noi altri non abbiamo niente! E non abbiamo visto niente!». Auyu, più giovane, racconta: «Tangeri è cambiata per i ricchi, ma per i poveri niente è cambiato, i poveri sono sempre poveri. Io, prima, quando venivo dalla Spagna, “vendevo giusto degli spazzolini” (vendere spazzolini è un’espressione che significa esercitare piccoli lavori) al porto e guadagnavo bene, adesso niente. Si vendeva ai migranti, ai marocchini che vivevano in Europa e che tornavano, ma adesso questo non c’è più».

Tutti gli intervistati affermano di ricordare il periodo delle proteste, da quelle dei portantini a quelle delle operaie e operai. Tra queste, la protesta delle operaie di Manifacturing Textile – realizzata da un gruppo di donne e un uomo –, una delle ultime aziende ad abbandonare il terreno della vecchia zona franca portuale. Il 13 dicembre 2013 le operaie della Manifacturing Textile, recandosi sul luogo di lavoro, trovarono lo stabile chiuso. Avviata una causa in tribunale, venne accolta in prima istanza la loro richiesta di risarcimento, che in base all’anzianità lavorativa e alle situazioni familiari si aggirava tra i dieci e i ventiquattromila euro. Era il 20 febbraio 2014. Con il prosieguo del processo in Corte d’Appello, il risarcimento venne negato. Nel novembre 2014 la protesta si trasformò in un presidio permanente davanti ai locali della società. Su trentacinque operaie licenziate, venti decisero di occupare lo spazio antistante la fabbrica, venne costruita una casa di plastica e cartone dove, a turno, le donne trascorrevano le giornate e le notti, questo per quasi due anni. Il fine principale era quello di attuare una strategia di controllo dello stabile per impedire il trasferimento dei macchinari. Le donne stilarono la lista di tutte le attrezzature ancora all’interno della fabbrica, la presentarono all’ufficiale giudiziario e cominciò alla vendita: ne ricavarono duecentosessanta mila dh (poco più di ventitremila euro) con cui pagarono l’avvocato e il processo; quel che restava fu distribuito tra le operaie. Tourya ha ottenuto circa seicento euro, mentre altre non più di duecento. «Trentasette anni di lavoro, io ho fatto tutto per questa fabbrica, ho perso la salute, ho lavorato mentre ero incinta senza avere niente in cambio». Mancavano due anni a Tourya per raggiungere la pensione, e la sua non è una storia isolata; tra le donne c’è, infatti, chi aveva un credito con la banca per l’acquisto della casa; chi, con il proprio lavoro, sosteneva l’intera famiglia, con tanto di marito disoccupato e genitori a carico.

La dismissione delle attività è oggi conclusa, ma i lavori continuano. Mi pare una vita che questi lavori sulla costa vanno avanti. Mi pare che sia sempre stato così, sin dal mio arrivo. Un cantiere aperto, in cui la lotta di Tourya e delle altre operaie non è stato che un segno nel tempo, un momento di passaggio dal duty free all’alcool a caro prezzo della nuove boîtes de la nuit tangerine. (lucia turco)

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