
Leggere, scrivere e far di conto. Ci ha rincorsi per più di un secolo questa celebrata formula che doveva riassumere gli obiettivi principali dell’educazione scolastica e che ancora oggi a qualcuno non sembrerebbero neanche male, tanto sgangherata da riforme e contro riforme appare la nostra scuola. Incapace di garantire, per molti, neanche l’acquisizione delle competenze più elementari.
Cosa si cela però dietro al rimpianto nei confronti della “vecchia buona scuola” di una volta? A cosa veramente si pensa quando la si rievoca? Riusciva veramente nell’intento, restituiva alla società studenti e studentesse capaci, con conoscenze limitate ma affidabili? Insegnava a far di conto, a leggere e scrivere? Quella scuola lì, quella del grembiulino bianco o blu, delle penne rosse, dei ministri democristiani, di Gonella, Ermini e poi Misasi, Malfatti, per arrivare alla Falcucci, alla Iervolino, era veramente una “buona scuola”?
A leggere alcuni editoriali sembrerebbe nutrito il gruppo di chi vorrebbe tornare indietro, riportarci lì: i firmatari del manifesto dei 600, quel bel listone di professoroni universitari, da Cacciari a Diamanti, stanchi di vedersi recapitare studenti così analfabeti dai colleghi dei ranghi inferiori da costringerli a correggere addirittura l’italiano; Paola Mastrocola, anche lei orfana di quelle belle classi di una volta che per colpa di Don Milani non ci sono più, quelle belle e silenziose classi dei licei classici dove potevi “far lezione” senza sbatterti più di tanto appresso a Bes, Dsa, personalizzazione della didattica e altri macchinosi didatticismi; Ernesto Galli della Loggia, anche lui stanco di vedere deturpato l’uso dell’italiano, di vedere ignoranza e sciatteria avanzare senza ostacoli.
Ma questi intellettuali, professori ed ex professori, cosa veramente vorrebbero veder ripristinata nella nostra società di quel mondo educativo lì, di quel paradiso dell’insegnamento in cui si poteva veramente “fare cultura”? Non ricordano gli scioperi? Non ricordano la fatiscenza delle strutture? I doppi turni? La selezione feroce che sistematicamente colpiva gli alunni delle fasce sociali più deboli? Le classi differenziali? Quella diabolica invenzione a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta che costringeva maestri spesso alle prime armi a vedersela con gli “scarti” del sistema scolastico, quelli che nessuno voleva nelle proprie classi, perché più lenti, più poveri, più agitati. È proprio in una classe differenziale che prova a costruire un modello educativo diverso il volenteroso Bruno d’Angelo, alias Bruno Cirino. Magistralmente diretto da Vittorio De Seta, Cirino interpreta la figura di Albino Bernardini nello sceneggiato televisivo Diario di un maestro, liberamente tratto proprio dal racconto biografico di Bernardini del suo primo anno di insegnamento nella romanissima borgata di Pietralata negli anni Sessanta. Il film rimane probabilmente ancora oggi il migliore che sulla scuola sia mai stato girato nel nostro paese.
Ecco, questi nostalgici della vecchia buona scuola di una volta non ricordano, o non vogliono ricordare, tutte quelle figure, come appunto Bernardini, o Mario Lodi, Bruno Ciari, la maestra del trullo Maria Luisa Bigiaretti (quella con cui Gianni Rodari collaborò per scrivere La Torta in cielo) e il loro tentativo di riformare una scuola tutt’altro che perfetta. Una scuola in cui alcuni maestri e maestre, nelle loro classi, senza raggiungere magari la celebrità che toccò ad altri, provarono con determinazione e coraggio, ostacolati, spesso discriminati ed emarginati, a costruire un luogo di vera democrazia. Molti di loro, ispirandosi all’attivismo pedagogico fiorito nella prima metà del ventesimo secolo, cercarono di contestare la scuola trasmissiva e autoritaria che veniva prevalentemente praticata nel nostro paese e che indagini sociologiche come quella di Marzio Barbagli, Le Vestali della classe media, o di Marcello Livolsi, La macchina del vuoto, denunciavano aspramente. Era quella una scuola in cui il rapporto tra insegnamento e apprendimento non veniva certo interpretato come una relazione circolare e dialettica ma come una freccia orientata in un’unica direzione, per cui da una parte c’era l’insegnante, depositario di un sapere, e dall’altra l’alunno, che lo doveva acquisire.
L’ESEMPIO DI FREINET
Il modello di educazione che quei maestri provavano a praticare partiva da premesse opposte e usava strategie e tecniche completamente diverse da quelle meccaniche e ripetitive della scuola tradizionale. Nella sua scuola di Vence, il maestro Célestin Freinet, già negli anni Venti del Novecento, aveva mostrato quanto importante fosse, nel processo di apprendimento, proporre ai bambini di elaborare i propri testi, quanto importante raccontare liberamente quello che accadeva, all’interno e all’esterno della scuola. Quanto abituarsi a scrivere fosse determinante per appassionarsi a leggere e come le due cose fossero veramente legate. Nasceva così l’idea di trasformare la classe in una tipografia e di permettere agli alunni di confrontarsi con il loro vissuto, analizzarlo, condividerlo con i propri compagni e poi con quelli che si trovavano nelle altre classi, in altre scuole. Lo strumento ideale non poteva che essere il “giornalino”, che una volta prodotto, andava poi diffuso e scambiato con quello prodotto in altre classi e altre scuole. Slegare queste due cose sarebbe stato contraddittorio. Affermava Freinet infatti che “stampare per il solo piacere di stampare è un po’ come quando si offre al bambino una vanga per raschiare la sabbia o la terra senza dargli la possibilità elementare di seminare e di far produrre il terreno smosso”[1].
Per molti maestri la “tipografia in classe” e la “corrispondenza scolastica” diventarono così, a partire dall’insegnamento di Freinet, un vero e proprio segno di riconoscimento, tanto da destare subito inquietanti interrogativi negli insegnanti più legati a una didattica tradizionale, preoccupati per il diffondersi di pratiche “comuniste” (non sapevano che, in realtà, neanche all’interno del partito comunista erano particolarmente ben viste!). Da Freinet e da chiunque le proponesse bisognava guardarsi bene. In un documento degli anni Cinquanta redatto durante un incontro di maestri cattolici si legge: “Il Freinet, invece di restare sul terreno della didattica, deduce da tutto ciò una filosofia a carattere decisamente materialistico e marxistico: gli alunni nelle loro équipe sono i ‘proletari’ che risolvono, nella materialità del loro comporre, ogni valore umano e spirituale come derivante dalla ‘tecnica economica’. Assistendo alla genesi del libro, e anzi partecipandovi s’inseriscono nel mondo proletario e sfatano la leggenda di qualsiasi altro mondo culturale o spirituale che non sia il prodotto delle loro mani, e scoprono così la verità dell’unica ideologia possibile: quella comunista”[2].
Pensiero critico, immaginazione, riappropriazione della propria storia, preoccupavano chi pensava alla scuola come a un luogo di riproduzione dello status quo, ma preoccupava anche che il punto di partenza nell’apprendimento della lingua non fossero più gli elementi analitici, le sue regole, ma il suo uso concreto, vivo, per esprimersi e comunicare con i propri simili. Quando oggi si sente criticare lo stato dell’educazione scolastica nel nostro paese, mai a queste esperienze si fa riferimento, benché invece proprio di queste tecniche didattiche ci sia un enorme bisogno, e delle possibilità, degli orizzonti che aprirebbero.
VIAGGIO INTORNO A CASA MIA
Alla luce dei dati drammatici sulla lettura e la scrittura non sarebbero ancora oggi la “tipografia in classe” e la “corrispondenza scolastica” utili antidoti? In tutte le classifiche internazionali il nostro paese si trova sempre agli ultimi posti. I progetti di promozione alla lettura si moltiplicano ma i risultati tardano ad arrivare. Perché? Non è forse vero che parte del problema risiede proprio nella separazione che viene operata tra scrittura e lettura e che non si possano curare i mali dell’una senza intervenire sull’altra? Come mai, per esempio, il crollo delle vendite di giornali e periodici non spinge editori e scuola a stringere un accordo per cui i progetti di sostegno alla lettura dei quotidiani si colleghi al bisogno di imparare a scriverli? Quanti interessi, curiosità, possibilità potrebbe rimettere in circolo l’approccio di Freinet nei confronti di questo oggetto sempre più distante dalle nuove generazioni, eppure così irrinunciabile in una democrazia che voglia dirsi tale. Il suo approccio potrebbe aiutare a pensare un giornale nuovo, diverso per forma e contenuti, ma che possa essere palestra di ricerca ed espressione, ponte verso le forme contemporanee di comunicazione, che aiuti i più giovani ad acquisire consapevolezza verso le problematiche della formazione e trasmissione delle notizie che i social media non possono fornire loro.
Le tecniche di Freinet sarebbero oggi ancora più semplici da realizzare e con gli strumenti informatici a disposizione ancora maggiori le possibilità. D’altronde il francese già alla metà degli anni Sessanta diceva che “non sono nel 1965 ciò che erano nel 1940, perché nuovi strumenti e nuove tecniche sono venute ad arricchire e facilitare il nostro lavoro. Non saranno nel 1970 quello che sono oggi, almeno se saremo in grado di perseguire, insieme, gli indispensabili progressi tecnici. La scuola moderna non è una cappella, né un club più o meno chiuso, ma un cantiere da cui uscirà ciò che tutti insieme riusciremo a costruirvi”[3]. Iniziare a scrivere un giornalino, nella propria classe, che parli della realtà più vicina ai bambini, è il primo passo per interessarsi a quello che succede più lontano, altrove, ad altri bambini, ad adulti diversi dai propri genitori.
Come avrebbe più avanti suggerito lo stesso Rodari nella Grammatica della fantasia, ai bambini bisogna iniziare a proporre “un viaggio intorno a casa mia”, cominciare da lì, insegnando a considerare importanti anche fatti apparentemente insignificanti, dettagli, suoni, forme, che sono la sostanza di una giornata di un bambino e che possono costituire gli elementi di un racconto funzionale a creare l’abitudine ad analizzare la realtà.
I bambini sono esigenti ascoltatori di storie, ma possono e devono diventare anche esperti narratori, più la scuola fornirà occasioni per praticare forme diverse di narrazione, più costruirà le condizioni perché essi siano anche dei curiosi lettori delle storie altrui. Ne era convinto anche Mario Lodi, che in una delle sue ultime interviste dichiarava: “Una buona scuola cosa dovrebbe fare? Sviluppare l’uso della parola portandola al livello di espressione artistica, cioè come poesia, come fiaba, come teatro”.
Far di conto, quindi, scrivere e leggere, sì, ma a partire da noi stessi, da quello che siamo. Perché solo partendo da quello che siamo si possa iniziare un viaggio, un’esplorazione che ci porti veramente lontano. (giovanni castagno)
[1] Freinet C., Les correspondances interscolaires, Ed. École Moderne, Cannes, 1947, p. 2.
[2] Bini G., La pedagogia attivistica in Italia, Editori Riuniti, Roma, 1971, p. 146.
[3] Freinet C., Le mie tecniche, La Nuova Italia, Firenze, 1969, pp. 34-35.
* In data 28 novembre 2019, Napoli Monitor pubblicava l’articolo dal titolo La nostalgia della vecchia scuola e l’attivismo pedagogico dimenticato a corredo del quale esponeva un disegno, per errore alterato nei colori originari e senza il nome dell’autrice. Preghiamo Giulia D’Anna Lupo, autrice del disegno, di accettare le nostre scuse sincere.
La redazione di Napoli Monitor